Dove va la democrazia, di Mario Barcellona

DiGiovanni Pascuzzi

10 Settembre 2018

Mario Barcellona. Dove va la democrazia

 

Ormai da qualche anno, sul desktop del mio computer, ho creato una cartella (che ho chiamato “cose-da-capire”) nella quale raccolgo articoli di giornali, saggi, screenshot e simili che parlano di fenomeni dei quali non riesco a comprendere fino in fondo la genesi e gli esiti. Ad esempio, ci sono le riflessioni di chi vagheggia la fine del lavoro e quelle di chi lamenta la spoliticizzazione del mondo; contributi che attestano la crescita delle diseguaglianze ma anche l’inspiegabile apatia di chi le subisce; e poi la crisi degli Stati; la svolta autoritaria; la crescita del rancore sociale; la robotizzazione; la globalizzazione; lo spostamento e comunque l’eclissi dei veri centri di potere; e così via. L’aspirazione è quella di comprendere se questi fenomeni (e molti altri), che caratterizzano il nostro tempo, siano riconducibili ad un quadro organico ed abbiano, quindi, radici comuni e ben individuabili.

Il libro di Mario Barcellona dal titolo “Dove va la democrazia. Scenari dalla crisi”, edito da Castelvecchi, è davvero prezioso perché offre una analisi della contemporaneità mettendo insieme, come tasselli di un puzzle, tutti gli elementi che la caratterizzano ed offrendo una chiave di lettura complessa e chiara di questo tempo.

Il prisma attraverso il quale Mario Barcellona guarda a questi fenomeni è il concetto di democrazia e, soprattutto, la sua crisi.

L’odierna crisi nasce una quarantina di anni fa. Non a caso l’A. parte da un Report vergato (a metà degli anni ’70) dalla cosiddetta “Commissione trilaterale” dal titolo “La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie”. Secondo Barcellona, il vero obiettivo di quella analisi era lo Stato sociale e i rapporti di forza tra capitale e lavoro che in esso (lo Stato sociale) prendevano forma (p. 16). Alcune delle ricette proposte allora effettivamente lasciano basiti: il primato della competenza sulla democrazia, la spoliticizzazione della democrazia, la necessità che il funzionamento di un efficace sistema democratico necessiti di una dose di apatia e disimpegno (p. 17).

Il fatto è che la strategia sollecitata in quel rapporto fu attuata negli USA da Reagan e nel Regno Unito dalla Thatcher. E poi pian piano ha fatto breccia in tutta Europa, comprese le sue tanto celebrate socialdemocrazie. Il risultato (voluto) è stato quello di mandare in soffitta il compromesso keynesiano e con esso il glorioso trentennio del welfare. Due le operazioni che hanno reciso questo trentennio: la marginalizzazione del lavoro (l’impresa è stata liberata dalla rigida dipendenza dall’occupazione) e la marginalizzazione dello Stato (da un lato per l’accresciuta rilevanza delle istanze sovranazionali, dall’altro per il maggiore potere attribuito ai “mercati”) (p. 21). La democrazia politica si è trasformata in democrazia liberal-liberista.

Qualcuno ha pensato di trovare rimedio alla crisi della democrazia attingendo a paradigmi come la Postdemocrazia, la Controdemocrazia o, ancora, la Democrazia deliberativa. Barcellona si mostra scettico rispetto a queste possibili terapie. Soprattutto perché non crede che la democrazia possa essere salvata dall’esterno. Anche perché guardando fuori dalle istituzione si scopre una realtà tutt’altro che bella da vedere. E non basta solo la ragione economica (“teorizzata un po’ contraddittoriamente dal marxismo e dal pensiero liberal-liberista” p. 33) a spiegare ciò che accade. In pagine dense e avvincenti, Barcellona dimostra che ci troviamo di fronte ad un mutamento antropologico: c’è stata “una modificazione profonda del modo in cui gli uomini hanno preso ad intendere se stessi ed il loro rapporto con gli altri, in forza di un orizzonte molecolare ove si annuncia che ognuno può salvarsi da solo e che ad ognuno è aperta la porta del successo” (p. 37). Assistiamo alla privatizzazione della speranza e ad una universale singolarizzazione. La società singolarizzata non ha più spazio per la politica. Né può essere rappresentata.

Nella società singolarizzata la “stratificazione sociale ha preso la forma di una clessidra, ove la parte superiore è occupata dalle élite, dalle loro corti e dai minores che esse garantiscono ed in quella inferiore trova posto tutto il resto, l’insieme molteplice dei non protetti” (p. 8 e 41).

La società singolarizzata produce il populismo ed offre come alternativa solo l’indifferenza e la rassegnazione (p. 40).

La singolarizzazione (e l’indistinzione che l’accompagna) mira ad oscurare il conflitto e la rappresentazione che esso riceveva nella distinzione di destra e di sinistra (p. 43). E Barcellona spiega che il populismo di oggi “proietta la sua ombra oltre l’ambito cui è solitamente riferito: si annida anche nella “rottamazione solo generazionale” e nelle svariate altre formule in cui quel che sta dentro il cerchio degli insider (ovvero: chi sta nella parte superiore della clessidra) si fa promotore di un mutamento senza cambiamento, ovvero nell’antipopulismo senza destra e senza sinistra, ovunque il socius cede il posto al singulus e questo regredisce nel proprium, nell’autoreferenziale per sé” (p. 43).

L’A. denuncia “l’altro populismo”, quello delle élite e senza peli sulla lingua afferma: “L’insediamento centrale di questa “resistenza democratica” è rappresentata dal corpo superiore della nuova clessidra, che progredisce sulla stato attuale delle cose o ne trae, comunque, protezione. Ma questo corpo superiore non prevarrebbe senza vaste porzioni del suo corpo inferiore, che, pur condividendo spesso il risentimento e le paure branditi dai populismi, tuttavia teme ancor di più che il loro prevalere disperda il poco rimasto, quel che resta della loro passata sicurezza, insomma temono di passar da male in peggio” (p. 45). Il collante della parte superiore della clessidra è la paura: per questo non si può contare su di essa per rivitalizzare la democrazia.

Barcellona dedica i successivi capitoli a spiegare le caratteristiche della “democrazia singolare” (brutte anche da descrivere, come la precarizzazione e la delusione) e a tratteggiare il ritorno della hobbesiana moltitudine senza politica e senza rappresentanza: la democrazia singolare è una democrazia amministrativa (senza politica) che alimenta e produce solo contingenza.

Ma dopo una analisi spietata, il libro si chiude con una ricetta che attinge alla necessità di concepire un nuovo immaginario da contrapporre al pensiero unico che ci sovrasta.

Non era mia intenzione riassumere il pensiero che Mario Barcellona ha consegnato a questo libro: del resto sarebbe impossibile farlo tanti sono gli spunti e i riferimenti che egli offre al lettore. Ho provato a dare un’idea dello spessore di quel pensiero.

Restano da scrivere le mie impressioni “a caldo”, che già invocano una rilettura del libro.

Innanzitutto sono grato a Mario. Quella cartella sul desktop del mio computer, si arricchisce di un contributo che aiuta a fare chiarezza su tante cose. I tanti fenomeni che caratterizzano il nostro tempo sono interpretabili alla luce di una precisa chiave di lettura. Ed è possibile immaginare anche un cambio di rotta: la speranza, quindi, non è smarrita del tutto.

Leggendo il libro mi sono chiesto: Mario è ancora un uomo del ‘900? Lo è certamente perché incarna la figura del professore intellettuale, del giurista intellettuale, dell’intellettuale tout court. Dovrebbe essere un esempio per tanti giovani pur valenti colleghi che esauriscono le loro energie nell’esasperato tecnicismo dimenticandosi della ricerca di senso (la parola senso ricorre spesso nelle opere di Mario): io lo chiamo “saper essere”. Ma è anche un uomo del nuovo millennio perché non si attarda a riverniciare categorie del passato, ma propone un percorso per costruire un nuovo immaginario che non può che essere quello di questo tempo. Attingendo alla nostra cultura per quello che serve e per quello che basta.

Nel libro, poi, ho trovato conferma di una idea che mi ero fatto da tempo (certo: lui la spiega molto bene). È avvenuto un mutamento antropologico. Da un certo momento in poi è cambiato il modo di pensare delle persone. Ci si può interrogare sul perché questo sia avvenuto. Ma per me è una scoperta fondamentale perché, sia pure in chiave negativa, pone comunque al centro l’uomo. È l’uomo (non l’economia, non i mercati) che fa o può fare la differenza.

La domanda che mi porto dentro (e che vorrei fare a Mario) allora è questa: possiamo avere fiducia nell’uomo? Può l’uomo costruire davvero un nuovo immaginario? Non necessariamente quello proposto da Mario, ma un immaginario nuovo, diverso.

C’è una parola che nel libro, mi pare, non appaia mai: è la parola “corruzione”.

Non mi riferisco alla corruzione materiale, ma alla corruzione dell’anima. Quella che rende apatici, quella che abitua alle peggiori nefandezze, quella che si adatta a questa realtà e, in definitiva, porta a credere che non esista alternativa all’homo homini lupus (il vero distillato del pensiero unico di questo tempo).

Se è vero che l’uomo può (e, quindi, deve) decidere in prima persona il senso della propria esistenza e può farlo senza che qualcuno lo “addomestichi” pavlovianamente e senza necessariamente adattarsi alla legge mercantile della domanda e dell’offerta, lo sforzo deve essere quello di puntare sull’uomo (senza paura, se del caso, di scoprirsi credenti: una fede nell’uomo).

 

(sintesi su Sussidiario.net)

 

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