È ancora vero che sbagliando si impara?

Sbagliando s’impara è uno dei proverbi di antica origine (deriva dal latino “errando discitur”) che si sente ripetere più spesso.

Non so se valga ancora per le nuove generazioni, ma nell’immaginario delle persone che hanno accumulato un certo numero di primavere, l’errore è icasticamente rappresentato dalla matita bicolore che gli insegnanti usavano per segnalare gli strafalcioni grammaticali e concettuali contenuti nei compiti scritti: sottolineatura rossa equivaleva ad errore grave mentre quella blu segnalava l’errore gravissimo. Forse si usava il blu, tendente al viola, perché ricorda il colore del volto quando si prova una forte vergogna.

Certo da tempo è superato l’approccio che individuava nell’errore qualcosa da sanzionare e basta. Secondo le impostazioni più moderne l’errore è il motore del processo educativo: identificando gli errori e le loro cause i giovani apprendono le strategie fondamentali dell’analisi critica (qualcuno invoca anche una “pedagogia dell’errore”).

Ma l’errore può avere una funzione catartica solo in presenza di due condizioni.

La prima è la disponibilità a riconoscere l’errore che corrisponde al possedere una buona dose di umiltà. Oggi questa disponibilità scarseggia. Innanzitutto perché registriamo fenomeni come la tendenza dei genitori ad assolvere i propri figli parteggiando per loro a prescindere quando incontrano insegnanti ritenuti troppo severi ovvero la predisposizione a vivere come un affronto l’avvertimento di chi ti fa notare, anche con molto tatto, che si è sbagliato l’uso di un congiuntivo, o, ancora, l’avversione a fare tesoro dell’esperienza dei più anziani spesso vissuti come mero ingombro e non come patrimonio di sapienza accumulata (per i tanti errori che hanno già commesso) cui attingere.

Ma c’è anche un aspetto più generale che rende meno disponibili a dare peso agli errori. L’errore è uno scostamento dalle norme e dalle regole (grammaticali, sociali, scientifiche e così via). E la nostra è un’epoca che vive all’insegna della trasgressione (infatti, l’ha fatta diventare quasi … la regola). Lo scostamento dalla regola viene vista come espressione di creatività (cercare il nuovo) e in molti casi l’errore viene volutamente perseguito perché dà visibilità. Come spiegare altrimenti il fenomeno dei terrapiattisti che finiscono nei telegiornali più spesso degli scienziati che scrupolosamente, invece, cercano di evitare gli errori e, quindi, il buio a cui essi ci condannano? A volte sembra che abbia successo solo chi spara la balla più grossa. Insomma, viviamo in un’epoca che tende a sdoganare tutto e la cultura del condono fa il resto.

Ma, come si è detto, esiste una seconda condizione che deve verificarsi perché l’errore abbia effettivamente una funzione catartica: l’esistenza di persone che si sobbarchino il ruolo di segnalare gli errori senza lasciarli correre. Non sono tante le persone che ricoprono questo ruolo. Un po’ perché alcuni non vogliono: si tratta di un ruolo antipatico, che crea tensioni, che può portare alla emarginazione o ad essere considerati delle Cassandre. Un po’ perché alcuni non possono: chi segnala l’errore deve essere un “custode dell’ortodossia” e deve poter sottolineare soprattutto con l’esempio ciò che è sbagliato e ciò che non lo è. In un mondo dove la regola è lo scostamento dalla regola quanti posseggono davvero l’autorevolezza per puntare l’indice?

Il destino della funzione pedagogica dell’errore sembra già segnato così senza quasi necessità di ricordare altri elementi che pure sono significativi: Kahneman e Tversky hanno vinto il Nobel per l’economia perché hanno dimostrato che nella realtà noi sbagliamo sistematicamente (bias cognitivi); in una società complessa è molto difficile individuare quale sia il passaggio effettivamente sbagliato; a volte ci vogliono anni per capire un errore; l’abitudine a compiere sempre le stesse azioni non ci permette di capire che potremmo perseguire l’obiettivo in maniera più efficace; e così via.

Allora, davvero l’errore non ha più nulla da insegnarci?

A ben vedere, esiste un altro proverbio che non ha perso in nulla il suo fondamento di verità. È quello che recita: “la vita prima ti fa l’esame e poi ti spiega la lezione”. Gli errori, almeno alcuni, a volte si pagano a caro prezzo. Se abbiamo la fortuna di trovare qualcuno che ci dimostra che stiamo sbagliando conviene prenderlo sul serio e tenercelo stretto. Considerandolo un amico vero.

l’Adige, 27 febbraio 2022

Alto Adige, 27 febbraio 2022

 

 

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