E’ davvero una buona idea consentire l’iscrizione contemporanea a più corsi universitari?

DiGiovanni Pascuzzi

9 Febbraio 2019

Trentino, 9 febbraio 2019

Alto Adige, 9 febbraio 2019

Il Ministro dell’Istruzione Bussetti ha detto di voler abrogare la norma, (PDF), risalente al 1933, che vieta agli studenti universitari di iscriversi contemporaneamente a diverse Università ovvero a diversi corsi di studio della stessa Università. Secondo il Ministro la rimozione del divieto assicurerebbe una interdisciplinarietà del sapere per creare figure professionali che meglio rispondano alla variabilità e complessità del mondo del lavoro.

Se la riforma dovesse passare non mi straccerei le vesti: mi sembra un dettaglio rispetto ai tanti problemi che dovrebbero essere affrontati. Ma qualche considerazione merita di essere fatta.

Secondo le norme vigenti la quantità media di impegno complessivo di apprendimento svolto in un anno da uno studente a tempo pieno è convenzionalmente fissata in 60 crediti; ed ad ogni credito corrispondono 25 ore complessive di impegno. Se passasse la riforma, automaticamente si raddoppierebbe la quantità di impegno richiedibile agli studenti. Essi dovrebbero raddoppiare (in media) il numero di ore di lezione da seguire e il numero di esami da sostenere in un anno. È fattibile? Ed inoltre: davvero si pensa sia credibile, sul piano della serietà dell’impegno, l’idea che si possa frequentare a Catania un corso di laurea in fisica e a Milano un corso di laurea in Antropologia culturale?

Il risultato sarebbe: o sminuire il valore della frequenza delle lezioni riducendo i corsi ad esamifici; oppure allungare i tempi di studio. Seguire due lauree triennali in sequenza richiede 6 anni. Seguirne due in parallelo probabilmente allungherebbe e non diminuirebbe i tempi di conseguimento del singolo titolo. E questo andrebbe contro l’obiettivo di far laureare gli studenti nei tempi previsti per consentire loro di giungere il prima possibile sul mercato del lavoro.

Ma esistono anche considerazioni di sostanza. Il Ministro pone giustamente il tema della formazione interdisciplinare. Ma seguire due corsi non significa fare interdisciplinarità ma multidisciplinarità. Sono concetti molto diversi. Approccio multidisciplinare è accostare materia a materia. Un po’ come avviene a scuola: si studiano, in ore diverse e con insegnanti diversi, la storia, la geografia, la fisica e così via. L’interdisciplinarietà non nasce dalla somma dei saperi ma dal metodo interdisciplinare. Non si raggiunge frequentando contemporaneamente il corso di lettere e quello di economia, ma costruendo dei percorsi formativi ad hoc che perseguano una vera formazione interdisciplinare.

Infine l’aspetto più importante. Le molle principali dell’apprendimento sono due: la motivazione e la concentrazione. Quest’ultima non solo permette di focalizzarsi sull’obiettivo ma è la premessa per un apprendimento più profondo e duraturo. È l’ingrediente principale per impadronirsi davvero del sapere che si vuole far proprio. Il pericolo, infatti, è quello di affastellare nozioni senza riuscire davvero né a dominarle né a rieleborarle.

La riforma può far passare l’idea che si possano fare bene tante cose insieme. Naturalmente ben possono esistere dei talenti in grado di riuscire egregiamente in ogni impresa. Ma le norme devono guardare alla generalità delle persone. E poter seguire tanti corsi contemporaneamente espone al rischio concreto di farli tutti male.

La volontà di formare figure professionali che meglio rispondano alla variabilità e complessità del mondo del lavoro è meritevole. Ma la strada per perseguirla è diversa: costruire dei percorsi formativi non multidisciplinari bensì interdisciplinari. In ogni caso essi dovrebbero essere intrapresi solo quando si hanno i piedi ben saldi in un sapere disciplinare: ovvero solo dopo aver conseguito una laurea inerente un sapere ben definito.

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