Nota a CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 9 aprile 2019, n. 78
È infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera b), n 240, nella parte in cui non prevede – tra le condizioni che impediscono la partecipazione ai procedimenti di chiamata dei professori universitari – il rapporto di coniugio con un docente appartenente al Dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata, ovvero con il Rettore, il Direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione. (1)
Coniugi e carriera universitaria
di Giovanni Pascuzzi
in Il Foro italiano, 2019, I, 2262-2268
1. Introduzione. La possibilità che due coniugi possano lavorare e fare carriera nello stesso Dipartimento universitario è un tema delicato perché coinvolge dinamiche naturali ed affettive che dovrebbero avere rilevanza esclusivamente nella sfera personale dei soggetti interessati.
Non sono rari, nella storia, i casi di coppie di scienziati uniti in matrimonio. Si pensi, per citarne alcuni, a Maria Sklodowska e Pierre Curie, sposi nel 1895, che vinsero il Nobel nel 1903 per gli studi sulla radioattività; o ai coniugi William Masters e Virginia Johnson che sono stati tra i primi a studiare approfonditamente la fisiologia sessuale umana; o, ancora, ai coniugi inglesi Mary e Louis Leakey che hanno fatto importanti ritrovamenti sulle origini della specie umana in Africa. Ma anche ai giorni nostri sono tante le coppie che hanno gli stessi interessi e sono attivi nel medesimo luogo di lavoro (situazione che a volte propizia l’innamoramento).
2. Le incandidabilità previste dalla legge 240/2010. Alla Corte costituzionale è stato chiesto di verificare la legittimità costituzionale dell’articolo 18 della legge 240/2010 (cosiddetta “riforma Gelmini” dell’Università) nell’inciso dove si stabilisce che ai procedimenti per la chiamata dei professori universitari di prima e di seconda fascia non possono partecipare coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al Dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il Rettore, il Direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’Ateneo.
In particolare i giudici che avevano sollevato la questione di costituzionalità[i] volevano appurare se occorresse avallare in via definitiva la giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha interpretato la norma ritenendo il rapporto di coniugio ricompreso tra le cause di incandidabilità, ancorché non espressamente previsto[ii]. Secondo la giurisprudenza amministrativa, infatti, oltre a parenti e affini fino al quarto grado, neanche il coniuge del professore (appartenente al Dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata) ovvero del Rettore, del Direttore generale o dei componenti del consiglio di amministrazione dell’Ateneo possono presentare domanda ad una procedura di concorso che veda l’esistenza dei legami appena ricordati. Molto eloquente la ragione addotta dai giudici amministrativi a sostegno di tale interpretazione: “il matrimonio non prevale sul principio di eguaglianza e su quello di imparzialità amministrativa e nessun rilievo in contrario può avere l’argomento per cui si tratterebbe di una scelta del legislatore che intende tutelare il matrimonio, salvo assumere che il biasimevole, ma non infrequente, fenomeno detto del familismo universitario vada addirittura istituzionalizzato”[iii].
Il disegno di legge originario, presentato al Senato nella XVI legislatura, non poneva nessuna limitazione né nei confronti del coniuge, né nei confronti di parenti e affini di persone già incardinate nell’Università[iv]. La norma così come la conosciamo è stata introdotta nel passaggio alla Camera[v]. Ma altri progetti e disegni di legge presentati in quel periodo contenevano divieti volti a limitare la partecipazione ai concorsi universitari di persone legate da vincoli famigliari a professori già di ruolo nell’Ateneo[vi].
Conviene ricordare che la norma si giustifica nel clima di sospetto che in quegli anni si nutriva da parte nell’opinione pubblica nei confronti dei concorsi universitari (sospetti non sopiti neanche oggi). Venne coniato il termine “parentopoli” per indicare quelle situazioni nelle quali in alcuni Dipartimenti risultavano reclutati interi nuclei famigliari. Oltre alle inchieste giornalistiche, furono dati alle stampe alcuni libri che stigmatizzavano duramente questo fenomeno[vii].
3. Il cosiddetto “dual career couples”. Non dappertutto la contemporanea presenza di due coniugi nello stesso Dipartimento è vista con sfavore. A volte viene addirittura incentivata, a riprova del fatto che il medesimo fenomeno può essere visto da punti di vista diversi se non addirittura opposti[viii]. In altri Paesi, e specie oltreatlantico, è stato introdotto un istituto denominato «dual career couples»: le Università interessate a reclutare un docente o una docente particolarmente bravo/brava offrono una posizione accademica anche al coniuge[ix]. In questo modo si pensa di incrementare il benessere della famiglia così da accrescere la produttività sul luogo di lavoro a propria volta volano di una maggiore competitività dell’Ateneo. L’attivazione dell’istituto del dual career è favorita quando le Università possono negoziare il trattamento economico di ciascun docente. Chi ha potere contrattuale può chiedere uno stipendio maggiore, ovvero benefit come la casa o l’automobile, o, appunto, l’assunzione del coniuge. In Italia questo è molto più complicato perché le forme di reclutamento e lo statuto giuridico ed economico dei docenti sono stabiliti dalla legge e sono uguali per tutti[x].
4. La pronuncia della Corte costituzionale. Con la sentenza 9 aprile 2019, n. 78 la Consulta ha ritenuto legittimo il diverso trattamento riservato al rapporto di coniugio rispetto ad altri vincoli di parentela o affinità. Il coniuge del docente appartenente al Dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata, ovvero del Rettore, ovvero del Direttore generale o di un componente del consiglio di amministrazione dell’Ateneo può liberamente partecipare ai procedimenti di chiamata dei professori universitari banditi nell’Ateneo in cui operano tutti i soggetti citati.
Di seguito, in estrema sintesi, i passaggi salienti della ragionamento seguito dalla Corte:
– la norma impugnata mira a garantire l’imparzialità delle procedure di reclutamento;
– il rapporto di coniugio è diverso da quelli di parentela e affinità; si caratterizza per l’elemento volontaristico, mancante negli altri rapporti considerati; e comporta convivenza, responsabilità e doveri di cura reciproca e dei figli;
– mentre nel caso di parenti e affini il principio di imparzialità e buon andamento (art. 97 Cost.) deve essere bilanciato solo con il diritto di partecipare ai concorsi, nel caso del coniuge il principio di imparzialità deve essere bilanciato anche con le molteplici ragioni dell’unità famigliare (di cui la comune residenza coniugale costituisce elemento di garanzia), esse stesse costituzionalmente tutelate;
– nel caso del coniugio, l’imparzialità deve essere perseguita non già mercé l’incandidabilità ma attraverso altri meccanismi come ad esempio l’obbligo di astensione.
La decisione assunta dalla Consulta sembra destinata, per definizione, a chiudere ogni discorso. Residuano alcune considerazioni.
4a) L’unità famigliare. L’unità famigliare non è minata dal fatto di vivere in città diverse. Migliaia di coppie, specie quelle più giovani, non convivono per molti giorni alla settimana o al mese perché lavorano in luoghi anche molto lontani tra loro. Non per questo viene meno l’unità famigliare. Se l’ordinamento davvero volesse intendere l’unità famigliare come necessariamente ancorata alla comune residenza coniugale (almeno nel pubblico impiego) dovrebbe essere generalizzato il diritto ad ottenere il trasferimento per avvicinamento al coniuge. Ma tale diritto è riconosciuto solo episodicamente[xi]. Basti pensare alle polemiche sorte all’indomani dell’approvazione della cosiddetta “legge sulla buona scuola” (l. 107/2015) quando migliaia di insegnanti hanno dovuto lasciare la residenza famigliare perché avevano ottenuto il posto di ruolo in un’altra regione. Per dar corpo davvero al principio bisognerebbe introdurre la possibilità per ogni professore universitario di chiedere e ottenere il trasferimento nell’Ateneo dove già lavora l’altro coniuge. Con la conseguenza di mandare in fumo la programmazione delle Università (che potrebbero non aver bisogno di risorse umane nel settore disciplinare proprio del soggetto che chiede di essere trasferito); e, soprattutto, i principi del merito e della competenza nel reclutamento universitario (una Università potrebbe avere standard qualitativi di accesso più alti rispetto a quelli dell’Università da cui proviene il professore che vuole essere trasferito per ricongiungersi al coniuge).
4b) Tutela della famiglia e tutela delle istituzioni. La Consulta ha ritenuto che alcuni interessi famigliari debbano prevalere (nel caso specifico) rispetto all’interesse al buon andamento della p.a. In questo modo ha accreditato l’idea che la tutela della famiglia debba prevalere sull’interesse delle istituzioni e sulla loro reputazione. Per spiegare la fragilità di tale conclusione si può ricorrere ad un esempio. Ai sensi dell’articolo 19 dell’Ordinamento giudiziario (r. d. 30 gennaio 1941 n. 12) i magistrati che hanno tra loro vincoli di coniugio o di convivenza (oltre che di parentela o di affinità sino al secondo grado) non possono far parte della stessa Corte o dello stesso Tribunale o dello stesso ufficio giudiziario[xii]. Alcune circolari del Consiglio Superiore della Magistratura hanno chiarito che detta norma tende essenzialmente a garantire la credibilità della funzione giudiziaria unitamente ad un regolare svolgimento dell’attività dell’ufficio[xiii]. La Consulta non si è chiesta se la presenza di due coniugi nel medesimo Dipartimento universitario possa nuocere alla credibilità dell’istituzione. Si pensi ad un’ipotesi banale ma abbastanza evocativa: cosa penserà lo studente che si ritiene ingiustamente respinto ad un esame sapendo che l’alternativa può essere ripetere l’esame con lo stesso docente oppure sostenerlo con suo marito e con sua moglie? Probabilmente la stessa sensazione provata dal cittadino soccombente in una causa quando scopre che a giudicare in appello sarà il coniuge del giudice che gli ha dato torto in primo grado. Un qualche accorgimento che eviti situazioni di questo tipo sono auspicabili (esattamente come avviene per i magistrati, rispetto ai quali l’unità della famiglia non viene considerato un valore da sovrapporre alla reputazione dell’istituzione)[xiv].
4c) L’obbligo di astensione. Secondo la Corte costituzionale l’imparzialità deve essere perseguita non già attraverso l’incandidabilità bensì attraverso altri meccanismi come ad esempio l’obbligo di astensione. In verità, al di là dell’articolo 51 del codice di procedura civile, citato dalla Consulta, esistono anche altre norme che già impongono al pubblico dipendente uno specifico obbligo di astenersi da attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi[xv]. Ma limitarsi a prescrivere l’obbligo di astensione non risolve le situazioni di conflitto di interesse (il potere di influenza può essere esercitato anche indirettamente), e, soprattutto, ignora il conflitto di interessi in caso di reclutamento e legittima la condizione di oggettivo svantaggio degli altri candidati. Come si dirà, il problema sul tappeto, ha una portata molto ampia che difficilmente può essere risolto con l’istituto dell’astensione.
4d). Le unioni civili. Nessun riferimento la Consulta opera alle unioni civili e alle convivenze disciplinate dalla legge 20 maggio 2016 n. 76. Sarebbe stato interessante sapere se il regime divisato dalla Corte sia da ritenere estensibile o no anche a questo tipo di relazioni.
5. Il problema da risolvere. L’art. 18 comma 1, lettera b), ultimo periodo, della legge 30 dicembre 2010, n. 240 non richiama espressamente il rapporto di coniugio (insieme alla parentela e affinità entro il quarto grado) tra le cause di incandidabilità. La giurisprudenza costante del Consiglio di Stato aveva interpretato la disposizione nel senso che il coniugio, ancorché non esplicitamente citato, deve considerarsi equiparato a parentela e affinità. La Corte costituzionale ha raggiunto una conclusione opposta sostenendo che il silenzio della legge sul coniugio poggia su valide ragioni e quindi non può essere fatta nessuna equiparazione con parentela ed affinità: il coniugio non è causa di incandidabilità.
Si è già parlato del clima che ha propiziato l’introduzione della norma: il sospetto sulla attendibilità dei concorsi universitari giustificato da numerosi episodi resi noti da iniziative giudiziarie o inchieste giornalistiche.
Occorre chiedersi se il problema da risolvere sia solo quello di garantire l’imparzialità della singola selezione concorsuale e quindi evitare che vengano costruiti concorsi ad hoc per un qualche parente o affine: questa è la definizione del problema data dalla Consulta[xvi].
Oppure se il problema da risolvere sia diverso e più ampio: evitare che nelle Università si creino interi gruppi di persone legati da vincoli famigliari perché tali gruppi finiscono per avere un potere di influenza sulla vita della istituzione che va ben al di là della possibilità di pilotare una singola procedura concorsuale.
Si pensi all’ipotesi in cui un Rettore nomini il coniuge Prorettore, un figlio presidente del nucleo di valutazione di Ateneo ed altri parenti finiscano per assumere altre cariche come Direttori di Dipartimento. In casi come questo è di tutta evidenza che le decisioni vengano assunte (o influenzate) fuori dal contesto istituzionale formale e che gli interessi generali di un Ateneo vengano piegati agli interessi, se non agli umori, di un singolo nucleo famigliare.
L’ipotesi vagheggiata fa tornare alla mente un fenomeno che Edward Banfield definì «familismo amorale»[xvii]. Egli descrisse le realtà nelle quali gli individui massimizzano unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo. L’«amoralità» discende dal fatto che le categorie di bene e di male si applicano solo tra famigliari, non verso gli altri individui della comunità. Secondo Banfield in una società siffatta nessuno persegue l’interesse comune se non quando ne trae un vantaggio personale; non c’è alcun collegamento tra i principi ideali e l’agire quotidiano; la legge viene trasgredita ogni volta che si può; i pubblici ufficiali non si immedesimano nella missione della propria organizzazione, ma sfruttano la posizione per avvantaggiarsi sul piano personale; le consultazioni elettorali servono per ripagare i favori ottenuti; e così via. Il risultato ha un nome preciso: l’arretratezza.
È appena il caso di notare che non serve necessariamente arrivare a casi limite. Quando in un Ateneo moglie e marito ricoprono la carica rispettivamente di Prorettrice e di Direttore di Dipartimento inevitabilmente possono crearsi dei corto circuiti: ad esempio il Direttore può ottenere informazioni riservate che gli altri Direttori non hanno. Si può obiettare che le informazioni riservate possono trapelare anche senza che ci sia un rapporto di coniugio. Vero: ma è altrettanto vero che il rapporto di coniugio crea per definizione le condizioni perché che ci siano travasi inopportuni di comunicazioni con la caratteristica della stabilità e della reciproca copertura.
Bisogna evitare che la vita dell’istituzione venga piegata ad interessi che non sono generali. La presenza di gruppi famigliari può influenzare non solo una singola procedura concorsuale (unica preoccupazione della Corte costituzionale) ma la vita dell’Ateneo sul piano delle strategie di crescita, delle scelte della aree da finanziare e così via.
Il problema è quello generale del conflitto di interessi di cui la possibile distorsione di un singolo concorso è solo un esempio.
Nell’esempio fatto, ove fosse avviata una indagine penale per accertare un qualche tipo di reato, tutti i parenti (coniuge compreso) del Rettore sarebbero esonerati dal testimoniare[xviii]. Circostanza che renderebbe più difficile l’accertamento della verità. Un piccolo esempio utile a dimostrare come la vita dell’istituzione possa rimanere subordinata all’interesse famigliare.
Se l’obiettivo è quello di evitare che si formino negli Atenei gruppi parentali in grado di influire sulla vita dell’Università e di orientarne le scelte in maniera significativa, non ha molto senso distinguere tra parenti/affini e coniuge.
La Corte costituzionale ha circoscritto il perimetro del problema: garantire l’imparzialità della singola selezione concorsuale (prospettiva nella quale, pur a fatica, può avere un qualche fondamento operare il bilanciamento in ordine al rapporto di coniugio). Ma esiste un raggio più ampio del problema: salvaguardare l’istituzione da possibili influenze particolaristiche di gruppi famigliari potenti. In questa diversa prospettiva (cui meglio si adatta l’orientamento del Consiglio di Stato), il rapporto di coniugio diventa un elemento che contribuisce a creare la minaccia e il distinguo con parentela e affinità non regge più.
Certo, sul piano letterale, la norma nulla dice circa il rapporto di coniugio. Ma quale problema ha voluto affrontare? Forse il legislatore avrebbe potuto chiarire meglio la propria ricetta: ma se il problema è evitare che si creino negli Atenei gruppi famigliari in grado di influenzare in maniera significativa la loro vita, non c’è ragione per ignorare il potenziale lesivo del rapporto di coniugio (e il legislatore potrebbe/dovrebbe intervenire ancora per chiarire definitivamente le cose). La presenza di coniugi (o persone vincolate da unioni di fatto) nello stesso Dipartimento o Ateneo determina situazioni di evidente conflitto di interessi (potenziale e attuale) che possono compromettere il corretto funzionamento, la trasparenza e l’efficienza dell’organizzazione, minare la fiducia nei suoi componenti, alterare i processi decisionali, contrastare l’adozione di principi quali la valorizzazione del merito e l’uguaglianza sostanziale.
Al quadro appena descritto si può muovere una obiezione non secondaria: due persone possono innamorarsi e sposarsi quando già sono professori ordinari (ovvero: all’apice della carriera) all’interno dello stesso Dipartimento. Non lo si può impedire (e per fortuna). Tutti i pericoli ipotizzati, pertanto, possono concretizzarsi al di fuori della operatività dell’art. 18 della legge 240/2010. A tale obiezione si proverà a dare risposta nel prossimo paragrafo dopo aver svolto una considerazione di ordine generale.
6. Una possibile soluzione. Il tema sul tappeto (anche dopo la pronuncia della Corte Costituzionale che si è mostrata preoccupata solo di rendere trasparente una singola procedura concorsuale) è quello del conflitto di interessi che può nascere tra la corretta vita dell’istituzione e l’aspirazione di qualcuno a subordinarla ad interessi familistici o anche solo a deviarla dalle dinamiche ordinarie e trasparenti.
La stessa legge 240/2010 prevede un istituto immaginato per far fronte a questo tipo di problemi.
A norma dell’art. 2, comma 4, della legge Gelmini tutte le Università si sono dotate di un codice etico. Esso “determina i valori fondamentali della comunità universitaria, promuove il riconoscimento e il rispetto dei diritti individuali, nonché l’accettazione di doveri e responsabilità nei confronti dell’istituzione di appartenenza, detta le regole di condotta nell’ambito della comunità. Le norme sono volte a regolare i casi di conflitto di interessi”.
Ogni singola comunità universitaria dovrebbe interrogarsi sul regime da applicare ai legami affettivi eventualmente esistenti tra qualcuno dei suoi componenti attraverso una specifica assunzione di responsabilità. Dovrebbe decidere se è auspicabile ricorrere a meccanismi quali il “dual career couples” (ammesso che, allo stato dei fatti, sia normativamente possibile nel nostro paese), oppure se, al contrario, è più appagante evitare di assumere persone legate da vincoli di coniugio o parentela in modo di scongiurare all’origine il sorgere di possibili conflitti di interesse (nel senso prima indicato) così da creare le condizioni perché l’immagine dell’Ateneo non venga mai offuscata (e la sua libertà di azione mai messa in discussione).
Come detto all’inizio, il tema è delicato. É molto difficile intervenire normativamente su una delle cose più naturali del mondo come è l’innamorarsi di un’altra persona. Ancora più difficile è dire a due ricercatori sposati che vogliono legittimamente fare carriera che non possono farla nello stesso Dipartimento o nello stesso Ateneo. Le persone coinvolte vivrebbero questo come un’ingiustizia. Ma forse cambierebbero idea se pensassero che la regola vale per impedire il sorgere di gruppi di potere familistici all’interno delle Università: tale situazione crea un danno all’Università che, indirettamente, colpirebbe quella stessa coppia. E le conseguenze sarebbero ben più penalizzanti, in termini di reputazione, del sacrificio chiesto di non fare carriera insieme e nello stesso posto. Il citato art. 2, comma 4, della legge 240/2010 ci ricorda che nei confronti dell’istituzione di appartenenza esistono doveri e responsabilità.
Il problema in discussione dovrebbe essere affrontato da ogni singola comunità universitaria come momento per fare chiarezza sui valori in cui crede. Ci sarebbero anche le scelte esplicitamente operate su questo specifico problema tra i parametri che gli stakeholder potrebbero prendere in considerazione nel valutare la reputazione di un Ateneo.
Alcune cose, però, possono essere fatte in ogni caso. Ad esempio vietare che marito e moglie, ovvero genitore e figlio o comunque professori tra cui esistono vincoli di parentela/affinità ricoprano contemporaneamente cariche istituzionali e/o posizioni di responsabilità all’interno dell’Ateneo[xix].
[i] Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, ordinanza 8 febbraio 2018 n. 85 (in G.U., 1a s.s., n. 17 del 26 aprile 2018).
[ii] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 4 marzo 2013 n. 1270, Foro it., Rep. 2013, voce Istruzione pubblica, n. 176 (per esteso in Vita not., 2013, 174); Cons. Stato, sez. VI, 24 dicembre 2018, n. 7216; Tar Emilia-Romagna 22 novembre 2018 n. 887; Tar Campania 24 maggio 2013 n. 2748; Cons. Stato, sez. VI, 25 gennaio 2018, n. 507; Tar Abruzzo, 25 ottobre 2012, n. 703. Il Consiglio di Stato ha recentemente affermato che il divieto vale anche per il convivente more uxorio: cfr. Cons. Stato, sez. VI, 6 agosto 2018, n. 4841.
[iii] Così Cons. Stato, sez. VI, 4 marzo 2013 n. 1270, cit.
[iv] XVI legislatura, disegno di legge n. S-1905 presentato dal Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca (Gelmini) di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze (Tremonti) con il Ministro per i rapporti con le regioni (Fitto) con il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione (Brunetta) e con il Ministro della gioventù (Meloni) comunicato alla presidenza il 25 novembre 2009: «Norme in materia di organizzazione delle Università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario».
[v] Cfr. la Scheda di lettura n. 262 del dicembre 2010 elaborata dal Servizio Studi del Senato dal titolo: Disegno di legge A.S. n. 1905-B “Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario”, p. 76.
[vi] Tra questi conviene citare il ddl 1387 (XVI legislatura), Valditara ed altri, che all’art. 6, comma 5, così recitava: “Il coniuge, i parenti e gli affini entro il secondo grado, oltre che i conviventi, non possono essere chiamati sullo stesso settore scientifico-disciplinare ovvero su settore affine dalla struttura organizzativa nella quale è incardinato l’altro coniuge, il parente, l’affine o il convivente, anche se in posizione di fuori ruolo”. La proposta del Senatore Valditara (che poi sarebbe stato il relatore al Senato della riforma che porta il nome dell’allora Ministra Gelmini) prevedeva espressamente il divieto per il coniuge anche se lo limitava all’appartenenza alla stesso settore disciplinare.
[vii] N. Luca, Parentopoli. Quando l’università è affare di famiglia, Venezia, Marsilio, 2009. Ma vedi già R. Simone, L’università dei tre tradimenti, Roma, GLF editori Laterza, 2000. Uno studioso ha anche elaborato un algoritmo che rintraccia i cognomi più diffusi nell’accademia italiana: S. Allesina, Measuring nepotism through shared last names. The case of italian academia, in Plos One, 2011, 6(8): e21160.
[viii] Sul farsi e disfarsi del problema, a seconda dei punti di vista, v. G. Pascuzzi, Il problem solving nelle professioni legali, Bologna, Il Mulino, 2017, 36 ss. e 94 ss.
[ix] C. Tzanakou, Dual career couples in academia, international mobility and dual career services in Europe, in European educational research journal, 2017, 16 (2-3), pp. 298-312; C. W. Putnam, J. Di Marco e C.B. Cairns, Recruitment of dual-career academic medicine couples, in Academic medicine. Journal of the Association of American Medical Colleges, 2018, 93 (11), pp. 1604-1606.
[x] Nel «Piano della ricerca 2013-2018» elaborato dal Dipartimento della conoscenza della Provincia di Trento, a pagina 66, si prevedeva quanto segue: «Nell’ottica di favorire la mobilità e attrarre ricercatrici e ricercatori di punta ma anche di contribuire ad una gestione di qualità delle risorse umane, tra le azioni favorite, verrà anche considerata la possibilità di attivare iniziative volte all’accoglienza delle coppie “a carriera duale” (Dual Career Couples), cioè a quelle coppie dove entrambi i partner seguono un percorso di carriera nel mondo accademico». Nel piano strategico dell’Università di Trento 2017-2021 si legge testualmente: «L’Ateneo si propone di continuare sulla strada intrapresa nell’eliminare le asimmetrie di genere, rafforzare le politiche di conciliazione e genitorialità, anche con forme di dual career couples compatibili con l’ordinamento legislativo nazionale».
Si tratta di affermazioni di principio: al momento non risultano casi in cui se ne sia fatta concreta applicazione. Forse non se ne è presentata l’occasione. O forse ci si è resi conto che l’ordinamento italiano (che il piano strategico cita) non rende possibile ricorrere a questo istituto: perché il reclutamento di docenti e ricercatori non può basarsi su criteri di valutazione diversi da quello del merito e della competenza (art. 97 Cost.).
[xi] Vedi per i militari la legge 10 marzo 1987 n. 100; e per il personale scolastico l’art. 475 del d. lgs. 16 aprile 1994 n. 297.
[xii] Per la magistratura onoraria vedi l’articolo 5, comma 4, del d. lgs. 13 luglio 2017 n. 116: “I magistrati onorari che hanno tra loro vincoli di parentela fino al secondo grado o di affinità fino al primo grado, di coniugio o di convivenza non possono essere assegnati allo stesso ufficio giudiziario. La disposizione del presente comma si applica anche alle parti dell’unione civile”.
[xiii] Vedi dapprima deliberazione del 4 dicembre 2003 e poi Circolare n. P-12940 del 25 maggio 2007, modificata con delibere del 1° aprile 2009 e 9 aprile 2014 (argomentando ex art. 30).
[xiv] Nella parte finale di questo scritto si tornerà sull’argomento parlando dei doveri e delle responsabilità nei confronti dell’istituzione cui fa riferimento l’art. 2, comma 4, della legge 240/2010.
[xv] Vedi, ad esempio, l’art. 7 del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (d.p.r. 62/2013) che impone al dipendente pubblico di astenersi dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi; oppure l’art. 6-bis della legge sul procedimento amministrativo (l. 241/1990) che impone al responsabile del procedimento e ai titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale di astenersi in caso di conflitto di interessi, e di segnalare ogni situazione di conflitto, anche potenziale.
[xvi] Nella motivazione di Tar Emilia Romagna 22 novembre 2018 n. 887 si legge testualmente: «La ratio della disposizione è infatti quella di evitare l’ingresso nelle strutture universitarie (al cui governo concorrono sia i professori che i ricercatori) di soggetti legati da vincoli parentali così stretti con coloro che già vi appartengono da far presumere che la loro “cooptazione” (chiamata/contratto) sia stata influenzata in maniera determinante dalle relazioni che legano il “parente” con gli altri componenti della struttura di appartenenza».
[xvii] E. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, Bologna, Il Mulino, 1961. La ricerca fu condotta da Banfield unitamente alla moglie Laura Fasano.
[xviii] Secondo l’articolo 199 del codice di procedura penale i prossimi congiunti dell’imputato non sono obbligati a deporre. La legge vuole evitare il conflitto psicologico tra l’obbligo di dire la verità e il dovere morale di non danneggiare il prossimo congiunto sottoposto a procedimento penale, in ragione del vincolo affettivo che lo lega al testimone. Se si tratta di una testimonianza importante, il rifiuto di testimoniare può far venir meno l’intera ricerca della verità. Cfr. L. Scomparin, La tutela del testimone nel processo penale, Padova, Cedam, 2000, p. 37.
[xix] Cons. Stato, sez. VI, 4 novembre 2013 n. 5284, nel giudicare il caso di due professori della facoltà di medicina, padre e figlio, afferenti allo stesso Dipartimento assistenziale, ha affermato che non si può essere eletti e nominati Direttore dei Dipartimenti ad attività integrata e Direttore di Dipartimenti assistenziali qualora all’interno della struttura interessata vi siano parenti o affini fino al quarto grado incluso. Il Consiglio di Stato (muovendo da quanto previsto dall’art. 4, comma 2, d.lgs. 7 maggio 1948, n. 1172 ratificato con modificazioni dalla legge 24 giugno 1950, n. 465) ha affermato che si tratta di un “principio immanente nell’ordinamento”.