Innovare (e, quindi, cambiare) è diventato l’imperativo dei nostri giorni. In Italia esiste un Ministero per l’innovazione (legata alle tecnologie digitali) e in Europa c’è un Commissario all’innovazione (connessa a ricerca e cultura).

Secondo la teoria economica l’innovazione è un fattore importante della crescita (economica, appunto). Non a caso l’Unione europea coltiva una propria specifica politica dell’innovazione la cui funzione consiste nel tradurre i risultati della ricerca in servizi e prodotti nuovi e migliori, al fine di restare competitivi sul mercato mondiale e migliorare la qualità della vita dei cittadini europei.

Ma dal piano squisitamente economico, l’imperativo dell’innovazione si è esteso a macchia d’olio un po’ a tutti i campi. Si cerca l’innovazione didattica, l’innovazione sociale, l’innovazione terapeutica e così via. Anche la politica batte forte sul tasto del cambiamento per attirare elettori sempre più svogliati e delusi: il governo del cambiamento è uno slogan molto gettonato (anch’esso ad alto tasso di logoramento). La stessa speranza (“ultima dea”) si nutre dell’idea che la situazione attuale (considerata insoddisfacente) possa cambiare.

Il grande “appeal” suscitato dall’innovazione poggia sulla convinzione che il cambiamento sia sempre positivo per definizione. Ma nel libro “Sbagliare da professionisti. Storie di errori e fallimenti memorabili”, Massimiano Bucchi spiega come a volte l’innovazione sia minata da errori che conducono al fallimento tanto di un nuovo prodotto quanto di una potenziale innovazione lanciata da una grande azienda (che può portare persino al suo tracollo).

L’innovazione non è un bene o un valore in sé. Va giudicata dagli esiti che non sempre sono positivi specie se ci sono delle carenze nella fase di progettazione che, magari sull’onda dell’entusiasmo dettato dalla fiducia estrema nelle “magnifiche sorti e progressive”, hanno portato ad una sottovalutazione dei problemi e degli effetti.

Anche i ricambi generazionali alimentano il desiderio di innovazione. Ogni nuova generazione, infatti, tende ad imporre i propri ricordi, la propria agenda e i propri progetti, distaccandosi e contrapponendosi alle generazioni precedenti. Emblematica la frase pronunciata da Matteo Renzi  quando, a dicembre 2013, venne eletto per la prima volta segretario di quello che allora era il suo partito, il Partito democratico: «Credo sia arrivato un momento in cui non possa bastare più continuare a sentirsi raccontare quanto è stata bella la loro storia, è arrivato il momento di scrivere la nostra storia e non solo sentirsi raccontare quanto è stata bella la storia degli altri». Solo il tempo può dire se c’è davvero innovazione nei metodi e nei contenuti o se il cambiamento invocato dai giovani si riveli una conferma del motto gattopardesco: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Spesso, nella nostra epoca, a cambiare è solo il “packaging”: desiderosi come siamo di cose nuove, accettiamo il vecchio più becero purché sia infiocchettato bene.

La verità è che innovatori non ci si improvvisa. Nel libro intitolato “L’intelligenza”, Cesare Cornoldi spiega che ci sono otto caratteristiche associate alla creatività: l’originalità (avere idee nuove); la sensività (saper vedere i problemi anche ponendosi le domande giuste); la fluidità (superare gli schematismi); il non-conformismo (superare le convenzioni); la fluenza (produrre molte idee/esempi); la curiosità (aprirsi a nuove situazioni); la produttività (saper ridefinire i problemi). In sostanza bisogna studiare per apprendere le skills connesse alla creatività così da diventare bravi innovatori: questo spiega perché esistano delle “Scuole di innovazione”.

Infine c’è un ultimo elemento con il quale l’innovazione deve fare i conti: il suo contrario ovvero la conservazione. Il nuovo prende il posto del vecchio e per molti versi è importante liberarsi di ciò che è stantio proprio per fare spazio alle novità e, quindi, alla nostra stessa capacità di rigenerarci.

Nasce così il problema: come scegliere cosa conservare del passato? Non è facile rispondere a questa domanda. Ma conviene sottolinearne un aspetto. In archivistica si chiama “scarto” l’operazione mediante la quale si provvede all’eliminazione dei documenti che si ritengono privi di interesse quali fonti per la ricostruzione storica. C’è però un’altra accezione del concetto. Papa Francesco, nella enciclica “Laudato si’ (n. 22), metta in guardia contro la “cultura dello scarto che colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura”.

L’innovazione è motore di progresso in tanti campi. A patto di saperla esercitare con cautela così da realizzare un sapiente equilibrio tra passato e futuro.

l’Adige 4 gennaio 2020

 

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