Una parola di cui dovremmo riappropriarci è: «Coraggio». Al compito si è dedicato Umberto Ambrosoli che di uomo coraggioso ha avuto come esempio il proprio padre, l’avvocato Giorgio, universalmente considerato eroe civile perché, nel 1979, pagò con la vita la decisione di fare fino in fondo il proprio lavoro di liquidatore dell’impero finanziario di Sindona (quelle tragiche vicende sono state narrate dal figlio nel libro «Qualunque cosa accada» e da Michele Placido, in qualità di regista, nel film «Un eroe borghese»).

La riflessione di Umberto Ambrosoli, avvocato penalista e consigliere regionale della Lombardia, muove dalle storie di donne e uomini coraggiosi scelti tra imprenditori, professionisti e politici senza dimenticare, nella parte finale, chi si è opposto al nazifascismo (con l’esempio di Tina Anselmi) o ad altri regimi totalitari (con il ricordo di Lech Walesa). Il punto di arrivo è probabilmente condensato in questa frase: «Se la virtù sta nel mezzo, il coraggio è una virtù perché nega allo stesso tempo sia la viltà sia la spacconeria. Il coraggio è l’arte di affrontare la paura». Ritorna in mente la puntualizzazione di un altro eroe, Giovanni Falcone, che diceva: «L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è incoscienza».

Chi non ha paura di nulla è un compagno di viaggio persino più pericoloso del vigliacco. E lo stesso Ambrosoli avverte che coraggioso è anche chi rinuncia quando riconosce umilmente l’inadeguatezza delle proprie risorse e delle proprie energie alla sfida che il pericolo gli pone.

Ma conviene soffermarsi su ciò che impedisce di essere coraggiosi. La prima imputata è certamente la paura. Bisogna, però, occorre intendersi sul suo significato. Lo scorso 14 maggio 2015, sull’edizione bolognese del Corriere della Sera, Maria Giuseppina Muzzarelli, docente di storia medievale, ha stigmatizzato il comportamento dei docenti dell’ateneo felsineo che nessuna posizione prendono in vista dell’elezione del nuovo Rettore. In questo caso la mancanza di coraggio (delle proprie opinioni), in persone che pure sono chiamate a dare l’esempio ai propri studenti, si giustifica con comportamenti opportunistici, ipocrisia, arrendevolezza al potente chiunque sia (o sarà).

Il problema ha portata generale: sempre più spesso non si denuncia la piccola o la grande ingiustizia per paura di perdere i propri personali privilegi. Emblematico il passaggio del libro di Ambrosoli che narra la storia di Maria Carmela Lanzetta, Sindaco di Monasterace. Eletta a furor di popolo quando si è fatta interprete della lotta alla ‘ndrangheta, ha visto scemare di molto il proprio consenso quando ha chiesto ai suoi concittadini di pagare le bollette dell’acqua che da anni quasi tutti omettevano di onorare. Come se la lotta per la legalità riguardi gli altri e non se stessi.

La parola coraggio, ricorda Ambrosoli, trova la sua radice nella parola cuore. Ha quindi una componente affettiva anche se la sua base è razionale. Con un nome preciso: responsabilità. Essa nasce dal far parte di una comunità che può progredire unicamente se è alimentata dal senso civico di tutti. L’impegno civile comporta l’assunzione delle responsabilità che nascono per il solo fatto di vivere insieme con gli altri e che aumentano se si rivestono ruoli particolari e di leadership. La nostra società si sta ripiegando su se stessa perché c’è una fuga generalizzata dalle responsabilità, anche quelle più elementari. Sempre più spesso essere coraggiosi significa soltanto fare il proprio dovere. Che poi è il modo per non diventare complici dell’imbarbarimento del vivere civile (Umberto Ambrosoli, Coraggio, Il Mulino, 2015, 12 Euro).

La Gazzetta del Mezzogiorno 24 giugno 2015

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