In molti Paesi europei si sta scoprendo adesso che alcune persone avevano contratto il coronavirus già alla fine dello scorso anno. Questo porta gli scienziati a dire che Covid-19 “girava” in Europa ben prima che la Cina desse l’allarme.

Sorgono alcune domande. La prima: perché la malattia non è stata diagnosticata allora? La risposta è che, in quel momento, nessuno sapeva dell’esistenza di questo virus e quindi a nessuno era venuto in mente di cercarlo (e, forse, non si sarebbe saputo bene nemmeno come cercarlo perché non era stata ancora isolata la sequenza completa del suo genoma).

Un secondo interrogativo riguarda il come sia possibile effettuare una diagnosi ora a distanza di tempo. Semplicemente perché qualcuno sta rivedendo le storie cliniche di questi malati “anomali”, sta riesaminando analisi e tamponi fatti all’epoca al paziente, sta compiendo nuove analisi con l’obiettivo di cercare in maniera specifica la presenza, anche pregressa, di questo particolare virus.

La vicenda appena narrata ci ricorda alcune cose.

Le scoperte (scientifiche ma anche no) nascono quando ci si pone le domande giuste, ovvero quando si sa cosa cercare, dove cercare, come cercare.

Certo, a volte, le scoperte sono figlie del caso. Il termine serendipity (in italiano: serendipità) indica proprio il trovare una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra. Si può pensare all’ipotesi in cui si studia un farmaco per curare una certa malattia e si scopre che lo stesso ritrovato può essere utile per curare malattie del tutto diverse.

Ma in linea di principio la ricerca muove da delle domande a cui si cerca di dare risposta trovando indizi, riscontri, prove. Per comprendere meglio l’approccio si pensi ad un fenomeno simile: quello delle perquisizioni. Quante volte, vedendo i telefilm polizieschi, abbiamo sentito il Montalbano di turno dire ai propri agenti (dopo aver formulato, anche inconsciamente, una ipotesi investigativa): “perquisite la stanza”. Ma cosa si fa esattamente quando si perquisisce una stanza? Se si cercano le prove di un traffico di stupefacenti si cercherà la droga. Ma magari in bella vista c’è un quadro rubato e nessuno se ne accorge perché non ne riconosce il valore, o non si sa che è rubato o perché sia finito li.

La ricerca (scientifica e no) muove dalle domande. È importante porre e porsi le domande giuste.

E proprio l’importanza che può avere la casualità ci fa capire come l’imponderabile (che, di primo acchito, appare essere il contrario del metodo) possa avere un peso decisivo. Il che significa che il ricercatore (i.e.: chi ricerca in genere) deve avere intùito ovvero qualcosa che va oltre il metodo.

Da questo discende una ulteriore considerazione. Il metodo induce alla definizione stereotipata dei passi da seguire, all’adozione di precisi protocolli di azione, all’aspirazione al riduzionismo algoritmico dei processi. Tutto vero e tutto dovuto al rigore metodologico. Solo che lo scenario descritto porta ad una inevitabile focalizzazione. Quest’ultima ci impedisce di avere uno sguardo largo. Ci impedisce di vedere la possibilità del cambio di paradigma che è la base delle rivoluzioni scientifiche. Come avvenne quella volta in cui qualcuno disse che era la terra a girare intorno al sole scardinando tutte le certezze che fino a quel momento erano autoalimentate dal metodo sin li seguito.

Oggi gli scienziati sono impegnati nella ricerca di un vaccino contro il coronavirus. Bene: speriamo lo trovino presto. Ma se ci fosse una risposta diversa, più veloce e più efficace al problema? Non lo sappiamo? O semplicemente nessuno la sta cercando?

La riflessione appena svolta produce due considerazioni.

La prima riguarda chi auspica l’istituzione di “cabine di regia” per orientare la ricerca verso obiettivi specifici. Questo è il modo migliore per elevare la focalizzazione a sistema, con le conseguenze viste: rinunciare a coltivare il paradigma dell’imprevisto.

La seconda riguarda chi pensa sia inutile spendere soldi per attività apparentemente lontane dai bisogni immediati, come, ad esempio, mandare l’uomo su Marte. Chi può escludere che lì troveremmo risposte per domande che, in questo momento, non siamo nemmeno in grado di porci?

l’Adige 14 maggio 2020

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