L’era digitale sta innescando una trasformazione radicale del mondo del lavoro principalmente a causa di tre fenomeni: l’automazione, gli algoritmi e le piattaforme.

Tali mutamenti possono essere di segno positivo. Nelle fabbriche sono entrati i robot che affrancano totalmente gli umani dai lavori più pesanti e pericolosi come avviene, ad esempio, in alcuni reparti delle catene di montaggio delle automobili. Grazie alla telematica è possibile ricorrere allo smart working, ovvero la possibilità di lavorare da casa. Esso genera alcuni vantaggi come la fine del pendolarismo (con conseguenti risparmi sui trasporti e benefici ambientali); la riduzione del traffico; il tramonto del modello “città-centrico”. Gli algoritmi della “data driven innovation” (ovvero: innovazione guidata dall’analisi dei big data) possono essere usati per migliorare le procedure standardizzate e ottimizzare i processi produttivi.

Ma le tecnologie digitali possono essere anche all’origine di preoccupanti involuzioni sul piano della tutela dei diritti. Tralasciando il grande problema rappresentato dalla perdita di posti di lavoro dovuta alla sostituzione delle persone con i robot, si pensi ai possibili rischi di un uso spregiudicato della data analysis. Con la locuzione “workforce analytics” si fa riferimento all’uso di dati e metriche sul personale per controllare, misurare e anatomizzare le prestazioni, pianificare le ricompense e gli stimoli, congegnare meccanismi di promozione, approntare dispositivi istantanei di feedback e contestazione. Si finisce per accentuare il controllo determinando uno stato di valutazione permanente per mano dei superiori, dei colleghi e dei semplici consumatori a scapito dell’autonomia dei lavoratori di decidere se e come una determinata attività debba essere completata (in argomento illuminante è la lettura del libro di Aloisi e De Stefano dal titolo “Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano, Laterza, 2020).

Il lavoro da casa (che tecnicamente può assumere la denominazione di “telelavoro” e di “lavoro agile”) certamente ha i profili positivi prima richiamati, ma ha anche tanti aspetti problematici: il passaggio da un modello basato sull’orario di lavoro a un modello basato sul lavoro per obiettivi che, se non monitorato, può dar vita a forme esasperate di lavoro a cottimo; l’insorgenza della fatica digitale, perché restare sempre connessi comporta un maggiore dispendio di energie al punto da rendere indispensabile il riconoscimento di un diritto alla disconnessione; la sensazione di isolamento che affligge chi, lavorando davanti ad uno schermo, non può più relazionarsi fisicamente con i colleghi; la cancellazione della distinzione tra luogo di lavoro e ambiente casalingo visto che gli spazi coincidono, con conseguente mutamento del concetto di flessibilità (il tema è approfondito da Zamperini nel libro “Lavorare (da casa) stanca. Rischi e opportunità dello smart working”, Castelvecchi, 2020). Ma l’aspetto più preoccupante di tutti è il ricorso sempre più frequente a software in grado di controllare in maniera capillare il comportamento dei lavoratori da remoto. Hubstaff (https://hubstaff.com) è un programma che traccia i tasti premuti sulla tastiera, i movimenti del mouse e i siti web visitati dagli utenti/lavoratori. Time Doctor (https://www.timedoctor.com) registra ciò che compare sul monitor. Può anche scattare una foto ogni dieci minuti usando la webcam per controllare che il lavoratore sia effettivamente al suo posto. Isaak, un’applicazione sviluppata da un’azienda britannica di nome Status Today, monitora l’interazione tra i lavoratori con l’obiettivo di identificare chi collabora di più e combinando queste informazioni con i profili personali degli impiegati può individuare quali sono i lavoratori più produttivi. Enaible (https://www.enaible.io/), una startup di Boston, sta sviluppando un algoritmo di machine learning che sarebbe in grado di misurare quanto velocemente il lavoratore completa un task. Ad ognuno di essi il software assegna un punteggio di “produttività’” e questo aiuterebbe l’azienda a capire quali siano i dipendenti più produttivi e quelli che invece dovrebbero essere licenziati.

C’è poi il grande tema del lavoro tramite piattaforma (GIG economy): si pensi ai fattorini di Deliveroo. Se è vero che le piattaforme permettono di creare nuovi posti di lavoro è altrettanto vero che tanti sono gli aspetti critici: la profilazione dei lavoratori, la loro gestione delegata agli algoritmi, la valutazione affidata ai consumatori (con conseguenti forme di servilismo verso gli stessi); i micropagamenti a cottimo; il ricorso a lavoro autonomo simulato; le classifiche e gli incentivi poco trasparenti.

Occorre conoscere molto bene le tecnologie digitali per capire fino in fondo i cambiamenti che esse stanno producendo nel mondo del lavoro. Senza le competenze digitali si finirebbe per consegnarsi totalmente alle macchine e ai datori di lavoro senza scrupoli, così da diventare dei “vinti” del progresso. Di nuove competenze devono arricchirsi gli stessi sindacati se vogliono difendere i diritti dei lavoratori dell’era digitale.

l’Adige 3 marzo 2021

 

Argomenti correlati

Il diritto dell’era digitale

Le valutazioni degli studenti le fa l’algoritmo

Skip to content