Secondo le impostazioni più tradizionali (che potremmo definire “neoformalistiche” o “neopositivistiche”) esiste una e una sola interpretazione corretta di ogni enunciato normativo. C’è anche chi parla di “calcolabilità” del diritto o dell’applicazione di modelli matematici all’interpretazione. Lo stesso ricorso al concetto di “fattispecie giuridica”, con la sua articolazione in “fattispecie astratta” e “fattispecie concreta” rimanda all’approccio sillogistico che, per definizione, ricava meccanicamente le conseguenze dalla premessa di partenza. Gli epigoni contemporanei di siffatte convinzioni pensano che il diritto possa essere ridotto ad “algoritmi” in grado di essere processati da calcolatori.

Tutti questi paradigmi hanno in comune un corollario: la decisione del caso concreto sembra essere necessitata. Dal che ne deriva che il giudice (ovvero colui che per definizione ha il compito di applicare il diritto al caso concreto, dirimendo le controversie), sarebbe un soggetto algido, scevro da passioni (ma forse anche da un’anima): il suo sarebbe un compito “meccanico”, “calcolato e calcolabile”, “algoritmico” al punto che potrebbe essere addirittura sostituito dalle macchine.

Chi vive la realtà del diritto sa che le cose stanno in maniera molto diversa.

Non solo perché nella “decisione giuridica” entrano tranquillamente fattori extragiuridici: dalle emozioni (qualcuno, al tempo del lockdown causa coronavirus, si è opposto al processo a distanza sottolineando che sarebbe impossibile “giudicare, ed anche essere giudicati, senza mai potersi guardare reciprocamente negli occhi[i]) alle euristiche (ovvero le cosiddette procedure semplificate di decisione[ii]).

Ma soprattutto perché da sempre la funzione del giudice è lo snodo fondamentale del complesso processo che consente di “fare giustizia”.

Ecco, quindi, che capire chi è il giudice, come pensa, come si forma nel divenire delle proprie esperienze di studio e di vita aiuta a capire come funziona la giustizia ed offre utili modelli di riferimento a quanti, tra i giovani, vogliano intraprendere la carriera di magistrato.

Il tema si è di recente arricchito grazie ad un volume scritto da Pietro Curzio dal titolo “Quasi saggio” (Cacucci editore, Bari, 2017).

Curzio, magistrato barese classe 1953, dopo aver presieduto per molti anni la Sezione lavoro è stato nominato, a luglio 2020, Primo presidente della Corte di Cassazione.

Il suo volume è molto interessante perché, con semplicità ma anche consapevolezza delle grandi responsabilità connesse al ruolo, proietta una lama di luce sugli ingredienti che portano un uomo ad esercitare l’attività più difficile: quella di giudicare i propri simili.

Curzio parla delle persone a cui è affettivamente legato: il padre Nicola, lucano, con il quale da piccolo frequentava il cinema Galleria a Bari (p. 16 e p. 48); la madre Elisa (p. 43 ss.) vissuta più di 100 anni, con la quale “in una domenica di fine aprile” è riuscito in un passaggio che sfugge a molti: quello di “dirsi le ultime cose importanti” (p. 54); la moglie Annamaria, compagna di un viaggio cominciato tanti anni fa su bus per andare a Liapades, un viaggio “non sempre giusto e perfetto, ma meraviglioso” (p. 13); i figli Nicola ed Andrea.

Racconta delle persone che hanno contato nella sua formazione presso il di Cagno Abbrescia di Bari, Istituto gestito dai Gesuiti (p. 49). In particolare Padre Giuseppe Tranchini che gli ha trasmesso la passione per le camminate in montagna con gli insegnamenti che quel tipo di attività consente di maturare: “Camminare, specie in alta montagna, è la sintesi di ciò che si prova nella vita, momenti di entusiasmo, di fatica, di scoramento, di stanchezza profonda, di ripresa, di soddisfazione, sprazzi di felicità. Quel passo lento ma costante che ti porta a superare le difficoltà, è una linea che attraversa fasi e sensazioni diverse, tra i poli della crisi e dell’euforia, tenendoti sempre ancorato al terreno” (p. 37).

Offre tanti spunti per ricostruire un percorso intellettuale. Anche perché “poche cose permettono di conoscere un uomo quanto i libri della sua biblioteca” (p. 99). L’affermazione è fatta nel capitolo dedicato alla biblioteca di Spinoza (p. 91 e ss.) che l’autore si propone di visitare un giorno evidentemente in ragione del grande fascino culturale che su di lui ha esercitato il pensatore che ha delineato i fondamenti dello stato laico che garantisce le libertà religiose e politiche (p. 95). E certo non manca l’interesse per “saperi altri” rispetto al diritto, come la digressione sul Mosè di Michelangelo conservato a San Pietro in Vincoli, nell’interpretazione che di quell’opera ha dato Sigmund Freud ma anche quella opposta suggerita dallo storico dell’arte Franz J. Verspohl a testimonianza che anche le opere d’arte possono innescare “letture” diverse esattamente come plurime possono essere le interpretazioni di un enunciato normativo (p. 111 e ss.)[iii].

È in questo intreccio di esperienze di vita e di riferimenti culturali che il giudice Curzio si è formato ed ha maturato il modo di intendere il proprio ruolo.

Nel libro si colgono brevi frammenti di testo che dicono tanto su un approccio che diventa insieme metodologico ed etico sul piano professionale.

Così leggiamo per ben due volte (p. 24 e p. 87) una citazione delle memorie di Adriano[iv]: “Apparteneva a quella categoria di spiriti rarissimi, i quali, benché profondi conoscitori della dottrina, in grado di vederla per così dire dal di dentro, da un punto di vista inaccessibile ai profani, conservano tuttavia il senso della relatività del suo valore nell’ordine delle cose, la misurano in termini umani”.

Ancora, in uno scritto dedicato al Prof. Bruno Veneziani (il cui corso di Diritto del lavoro anch’io ho seguito, da studente di Giurisprudenza, nell’Università di Bari, all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso) scrive (pp. 23-24):”Posso solo dirti che il giudice di questi spazi aperti deve fare un uso prudente, e deve, nella motivazione, indicare il percorso che lo ha portato alla decisione. Prudenza e ragionevolezza. Chiarezza e leggibilità. Su questi elementi si gioca la partita della decisione giusta. Che non è un dato acquisito, ma un difficilissimo punto di equilibrio, da ricercare sempre nuovamente ad ogni passo, come il trapezista sul filo. Pretendere di possederla è infausto. Pretendere di cogliere nella legge un’entità oggettiva e immodificabile è da sprovveduti. Un saggio giurista di lungo corso non può che sorriderne. In tutte le interpretazioni di un testo normativo (e non) c’è la nostra esperienza, il nostro vissuto, i nostri sbagli, la nostra cultura, ciò che abbiamo appreso ed abbiamo dimenticato, ma è rimasto al fondo del nostro essere”.

Ed eloquente è anche la riflessione svolta a proposito di una famosa sentenza di inizio ‘900, allorché Ludovico Mortara si occupò dell’elettorato attivo delle donne (all’epoca di là da venire: p. 64): “Si discute spesso sul problema del rapporto tra posizioni personali del giudice e interpretazione della legge. Le parole di Mortara sono nette. Un giudice non può non avere idee e posizioni, se afferma questo non è onesto intellettualmente, ma quando giudica deve mettere da parte le sue convinzioni personali e ricercare la soluzione nel più attento rispetto delle norme, “esaminare serenamente il testo delle leggi”. È un percorso difficile ma è la sola via che gli è concessa, se vuole essere un “giudice”.

Il quadro che esce da questo libro è insieme semplice e profondo.

Un libro sul diventare saggio. Anche se, come dice Curzio (p. 12), nessuno lo è fino in fondo. Per fortuna.

 

 

 

[i] Così, ad esempio, Valerio Spigarelli, Processo a distanza, rischioso se si estende oltre l’emergenza, in Il Riformista del 9 aprile 2020, rinvenibile all’indirizzo https://www.ilriformista.it/processo-a-distanza-rischioso-se-si-estende-oltre-lemergenza-78235/3/. Un’affermazione del genere significa che la decisione non può essere assunta solo sulla base di fattispecie astratte e fattispecie concrete ma che può e deve tenere conto di altri fattori.

[ii] In un suo studio, richiamato nel libro Decisioni intuitive. Quando si sceglie senza pensarci troppo” (edito in Italia da Raffaello Cortina), Gerd Gigerenzer ha dimostrato che i giudici chiamati a decidere se rilasciare un imputato su cauzione usano la cosiddetta “euristica dell’unica buona ragione”: non è vero che prima di decidere analizzano tutte le possibili ragioni, i pro e i contro, ma si fermano alla prima buona ragione che giustifica una certa decisione.

Sulle euristiche (in particolare: dell’ancoraggio, della disponibilità e della rappresentatività) v.: Rino Rumiati e Carlo Bona, Dalla testimonianza alla sentenza. Il giudizio tra mente e cervello, Bologna, il Mulino, 2019, pp. 133 ss.; e Giovanni Pascuzzi, Il problem solving nelle professioni legali, Bologna, il Mulino 2017, pp. 37 e ss.

[iii] Freud, Il Mosè di Michelangelo, Torino, Bollati Boringhieri, 1976.

[iv] Yourcenar, Memorie di Adriano, VI ed., Torino 1984, p. 38.

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