Il 30 aprile l’Italia ha presentato alla Commissione europea il “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (Pnrr) che si inserisce all’interno del programma Next Generation EU (Ngeu), il pacchetto da 750 miliardi di euro varato dall’Unione Europea per fronteggiare la crisi pandemica.

Il 27 per cento del Pnnr (che prevede finanziamenti Ue al nostro paese per un importo superiore ai 200 miliardi di euro) è dedicato alla cosiddetta trasformazione digitale visto che uno degli obiettivi di fondo perseguiti dal governo è creare una società totalmente digitale (p. 16). Questo perché il nostro paese ha accumulato considerevoli ritardi nell’adozione delle tecnologie digitali tanto nel sistema produttivo quanto nei servizi pubblici che si sommano alle limitate competenze digitali dei cittadini (p. 13). Non a caso molti degli interventi sono finalizzati a colmare il cosiddetto “digital divide”.

Detta espressione (e quelle simili come divario digitale e diseguaglianze digitali) indica la distribuzione non uniforme delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) nella società. Essa però, negli anni, ha assunto significati diversi. Con l’accezione più risalente, oggi definita come “digital divide di primo livello”, si sottolineava la disparità tra le persone che hanno accesso ad Internet e le persone che di tale accesso sono prive. Il legislatore italiano ha cercato di predisporre strumenti utili a superare questo divario con varie iniziative come ad esempio gli investimenti sulla cosiddetta “banda larga”. Il Pnnr intende proseguire su detta strada perché tra gli interventi da finanziare ci sono le reti ultraveloci (banda ultra-larga e 5G) e in ogni caso ci si propone di portare la connessione a 1 Gbps su tutto il territorio nazionale entro il 2026 (missione M1C2, investimento 3).

Con l’andare del tempo ci si è resi conto che il mero accesso alla rete non è presupposto sufficiente per fruire realmente delle nuove tecnologie così da mettersi al riparo da ogni forma di esclusione. Con l’espressione “digital divide di secondo livello” si fa riferimento alla esclusione generata dal mancato possesso delle specifiche competenze necessarie ad usare queste tecnologie: cosiddetta “alfabetizzazione informatica” o “digital literacy”. Ecco perché il Pnrr punta anche su questo aspetto attraverso varie iniziative. Ad esempio: l’istituzione del Servizio Civile Digitale teso a reclutare diverse migliaia di giovani che aiuteranno circa un milione di utenti ad acquisire competenze digitali di base (missione M1C1.1, investimento 1.7); e la creazione di un sistema multidimensionale per la formazione continua dei docenti e del personale scolastico per la transizione digitale, articolato in un polo di coordinamento sull’educazione digitale (missione M4C1.2, investimento 2.1). Inoltre le imprese che investiranno in attività di formazione alla digitalizzazione e di sviluppo delle relative competenze si vedranno riconoscere dei crediti di imposta (missione M1C1, investimento 1).

Ma più di recente si è cominciato a parlare di “divario digitale di terzo livello” che riguarda le lacune nella capacità degli individui di tradurre il proprio accesso ad Internet e il suo utilizzo in risultati favorevoli: non basta disporre di computer e reti veloci, non basta avere le competenze digitali di base ed avanzate, occorre saper usare le tecnologie al fine di trarne la massima utilità per raggiungere risultati altamente innovativi. Proviamo a fare degli esempi.

Il Pnrr finanzierà anche questi obiettivi:

a) la trasformazione di circa 100.000 classi tradizionali in connected learning environments, con l’introduzione di dispositivi didattici connessi (missione 2, investimento 3.2);

b) il potenziamento delle competenze digitali del personale sanitario (missione M6Mc2.2, investimento 2.2).

Orbene: chi insegnerà al personale sanitario le competenze digitali? È appena il caso di precisare che l’obiettivo non è insegnare ad accendere il computer o a redigere la ricetta elettronica. I medici devono avere le competenze necessarie per adottare soluzioni di intelligenza artificiale nell’assistenza sanitaria e nelle cure. Devono essere in grado di capire se la data analytics può aiutare ad individuare la genesi di alcune malattie.

Ancora: chi concepirà e darà attuazione agli ambienti di apprendimento connessi nelle scuole? Anche qui il problema non è dotare le classi di tablet o di lavagne elettroniche. Occorre creare contenuti di apprendimento nuovi che usino tutte le potenzialità dei nuovi mezzi.

Non si va molto lontano se si pensa che informatici da soli, medici da soli, insegnanti da soli possano raggiungere gli obiettivi da ultimo citati. Per trasmettere queste nuove competenze occorre prima acquisirle e poi saperle trasmettere. Occorre superare questo divario digitale di terzo livello facendo leva sull’approccio interdisciplinare.

Non ha molto senso fermarsi a discutere se il digitale sia positivo o negativo (come quando si discute su pro e contro della didattica a distanza). Bisogna capire come la tecnologia può farci fare un reale salto di qualità e come formare persone che siano in grado di perseguire detto obiettivo.

l’Adige, 5 maggio 2021

Alto Adige, 7 maggio 2021

 

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