Di recente il professore russo Bashirov ha rilasciato un’intervista ad un noto quotidiano nazionale nella quale ha affermato quanto segue: «Quello che sta succedendo ora nel mondo accade solo in base alla variante di forza. Ormai bisogna riconoscere che il diritto internazionale è smantellato: quello che funziona è solo il diritto della forza. La Russia ce l’ha? Sì. Gli Stati Uniti? Certamente. Ce l’ha l’Ucraina? In piccola parte, ma ovviamente molto meno della Russia» (pdf).
La tesi non è nuova di questi tempi. Ma il diritto della forza è davvero efficace? È davvero lo strumento a cui dobbiamo affidare la soluzione dei conflitti a prescindere da ogni considerazione circa la giustizia del risultato?
Il professore russo sottolinea una circostanza evidente quando dice che l’Ucraina è molto meno forte della Russia. Ma è sotto gli occhi di tutti il fatto che, malgrado l’uso della forza soverchiante, la Russia non abbia ancora ottenuto gli obiettivi che si era proposta. Questo è avvenuto per varie ragioni: perché altri Paesi sono andati in soccorso dell’Ucraina, perché gli Ucraini si sono difesi con molta determinazione, e così via. Ciò che è incontrovertibile è che l’uso della forza ha provocato un numero cospicuo di vittime (militari e civili) per tutte le parti in causa: non conosciamo i numeri effettivi, ma possiamo dire che sono tante. Troppe, perché anche una sola vittima è di troppo.
Nel 2023 l’Osservatorio di politica internazionale del Parlamento italiano ha pubblicato un approfondimento (il n. 202) su «I conflitti armati dimenticati» dal quale emerge che attualmente ci sono 55 conflitti armati attivi tra Stati. Il caso dell’Etiopia è risultato il conflitto statale più letale registrato nel periodo successivo al 1989 nel mondo, con oltre 101.000 vittime.
L’esperienza degli ultimi decenni lascia emergere alcuni dati.
a. Per quanto si affermi la guerra tecnologica (ovvero: bombardamenti aerei, droni, cyberattacchi e simili), le guerre si vincono solo sul terreno, ovvero nel corpo a corpo tra i soldati (e, ahimé, i civili).
b. Le guerre durano a lungo, spesso si impantanano e restano in “stand by” senza vincitori e vinti (si vedano i dati prima richiamati sulle guerre dimenticate).
c. I forti sulla carta possono conoscere il sapore amaro della sconfitta (gli Stati Uniti hanno perso la guerra in Vietnam; l’Urss ha perso la guerra in Afghanistan).
In sintesi: l’uso della forza non garantisce la soluzione del conflitto e tanto meno la vittoria: garantisce unicamente un numero impressionante di vittime appartenenti a tutte le parti in conflitto.
Dopo il bilaterale in Alaska tra Putin e Trump, e dopo il summit alla Casa Bianca tra Trump, Zelensky ed alcuni leader europei, per il conflitto in Ucraina paiono aprirsi spiragli di pace.
Le guerre prima o poi finiscono. I negoziati che portano ai trattati di pace di regola si aprono con i negoziatori delle diverse parti che percorrono ampi tappeti rossi per giungere alla sede degli incontri. Se sin dall’antichità, il tappeto rosso viene usato per accogliere figure importanti associate al potere, alla regalità o al trionfo, nel caso dei negoziati di pace, il tappeto rosso finisce per simboleggiare il fiume di sangue dei soldati e dei civili (da ogni parte) morti durante la guerra.
Chi sostiene che il diritto internazionale è stato soppiantato dall’uso della forza non considera le vittime, nemmeno quelle appartenenti al campo di chi rivendica la bontà dell’uso della forza per imporre il proprio punto di vista. Una forma non marginale di cinismo: cosa possono contare le vite dei soldati per chi coltiva sogni di grandezza?
Le guerre sono fabbriche di lunghi tappeti rossi formati dal sangue delle vittime di ogni parte coinvolta. In una delle poesie più belle contro la guerra («Barbara») Jacques Prévert ha scritto: «Quelle connerie la guerre».
Chi ripudia la guerra, nel riaffermare la sacralità della vita, ripudia l’idea di causare la morte, anche quella dei soldati comandati da chi pensa sia giusto usare la forza per dirimere i conflitti.
Risuona attuale un passaggio della Lettera Enciclica «Pacem in terris», di Papa Giovanni XXIII (dell’11 aprile 1963):
«87. A tutti gli uomini di buona volontà spetta un compito immenso: il compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà: i rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità politiche da una parte e dall’altra la comunità mondiale. Compito nobilissimo quale è quello di attuare la vera pace nell’ordine stabilito da Dio.
88. Certo, coloro che prestano la loro opera alla ricomposizione dei rapporti della vita sociale secondo i criteri sopra accennati non sono molti; ad essi vada il nostro paterno apprezzamento, il nostro pressante invito a perseverare nella loro opera con slancio sempre rinnovato. E ci conforta la speranza che il loro numero aumenti, soprattutto fra i credenti. È un imperativo del dovere; è un’esigenza dell’amore».
Come è noto, non è necessario essere credenti per essere donne e uomini di buona volontà.

l’Adige 21 agosto 2025

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