Gli avvocati e la libertà, di Piero Calamandrei

Gli avvocati e la libertà, di Piero Calamandrei

(Corriere della Sera del 25 agosto 1943)

[Ad un mese dalla caduta del fascismo, Calamandrei pubblicò questo editoriale sul Corriere della Sera. Leggerlo aiuta a comprendere il ruolo degli avvocati e cosa significhi esercitare la professione in regimi totalitari, un copione che si ripete ancora oggi qua e là nel mondo]

 

Di tutti gli Ordini professionali, quello che più ha sofferto nel profondo l’oltraggio di questa goffa e umiliante tirannia durata vent’anni è stato il nostro, l’Ordine degli avvocati: perché noi, a differenza di tante altre professioni, non abbiamo mai trovato nel nostro quotidiano lavoro il pretesto per distrarci dalla realtà politica che ci attorniava e per rasserenarsi in altri cieli (quante volte abbiamo invidiato il letterato che anche in tempi di oppressione può passare le giornate a conversare col suo Ariosto, o l’astronomo che viaggia tra le costellazione dove non comandano i gerarchi di questo mondo!) ma abbiamo incontrato ogni giorno, anzi dieci volte al giorno, nel maneggio delle leggi che costituisce la nostra quotidiana fatica, la conferma esasperante della nostra vergogna, il “memento” implacabile, scaturente da ogni atto del nostro ministero, dell’avvilimento in cui eravamo caduti. Noi soli, insieme con la magistratura, abbiamo vissuto questo tormento delle leggi che si sbriciolavano come cartapesta tarlata tra le mani di chi voleva servirsene: e se qualcuno ha potuto sorridere della scherzosa formula con cui il fascismo fu definito come un “regime rigidamente autoritario temperato da una autoritaria indisciplina”, questa frase sapeva d’amaro per noi avvocati, ai quali la giornaliera esperienza insegnava che se il rigido autoritarismo aveva abolito la libertà, la totalitaria indisciplina aveva posto al luogo di esso l’arbitro individuale e la corruzione ufficialmente tollerata, e la triste beffa delle leggi illusorie, alle quali non credeva neanche il legislatore.

Proprio per questa particolare sensibilità professionale con cui gli avvocati sono pronti a reagire contro l’ingiustizia e a considerare la ribellione alla legalità come il più elementare dei loro doveri, essi sono stati in questo ventennio, nella grande loro maggioranza, i meno rassegnati e i meno proni. L’esercizio dell’avvocatura in tempi di servitù e di illegalismo, richiede spesso, anche se chi sta fuori non se ne accorge, una resistenza che in certi casi può arrivare l’eroico. Chi ha considerato l’avvocatura come un’arte di giuochi dialettici, come un torneo di quella vuota rettorica pacchiana, di cui in questi due decenni gli esempi più memorabili non sono venuti dagli avvocati, non deve dimenticare che specialmente negli anni immediatamente seguenti all’avvento del “regime”, l’esercizio del patrocinio forense è stato un duro tirocinio di coraggio civile e di abnegazione spinta talvolta fino al sacrificio della vita.

Assommano a centinaia i processi penali in cui gli avvocati sapevano in anticipo che, se avessero parlato in difesa delle libertà, all’uscita dall’aula avrebbero trovato i bastonatori comandati, pronti a sfogarsi in dieci contro il difensore inerme: eppure quegli avvocati parlarono come dettava la loro coscienza, senza tremar per le minacce, e sfidarono le percosse e pagarono col loro sangue. E non si deve dimenticare il fenomeno, ignoto a tutte le altre professioni, delle sistematiche devastazioni degli studi legali: ci fu un periodo in cui, in tutte le città italiane, venne di moda tra i condottieri di spedizioni punitive, dar l’assalto agli studi degli avvocati e incendiarli; e i casi furono così numerosi che si potrebbe fare un lungo albo d’onore di legali, tutti scelti tra i più probi e valorosi, che, dopo aver visto distrutti dalle fiamme i loro archivi  e la loro biblioteca, dovettero andarsene in esilio a ricominciare in povertà il loro lavoro. I saccheggiatori credevano in questo modo di bruciare per sempre la libertà e la giustizia: e non si accorgevano, sciagurati, che riuscivano soltanto a ridurre in cenere un mucchio di carte stracce! E non minore è stata l’abnegazione degli avvocati che in tempi più recenti, hanno esercitato, incuranti dei sospetti e dello spionaggio, il patrocinio dinanzi al Tribunale speciale sfidando, l’odio di qualche inquisitore (il cui nome sarà trasmesso ai posteri) che li guardava dal suo banco con cupidi occhi di aguzzino. A un difensore che io conosco, uno di questi cosiddetti giudici non poté trattenersi dal ringhiare un giorno: “Avvocato quando potrò vedere anche voi dentro quella gabbia?”. E infatti, prima di essere travolto con tutto il sinistro suo consesso, gli riuscì di trascinarvelo.

E’ naturale dunque che su questa professione, la quale per tradizione e per vocazione è stata sempre più fermamente di ogni altra attaccata alla libertà, si sia cercato in questo ventennio di avvolgere bavagli sempre più stretti per asservirla: il potere disciplinare trasformato in spionaggio di eterodossia politica: la iscrizione al “partito” imposta ai nuovi professionisti come condizione di esercizio professionale; e sopra tutto la ingerenza governativa penetrata nelle tradizionale autonomia dell’Ordine attraverso i “direttori” dei sindacati forensi, che anziché liberamente eletti dalla maggioranza con votazioni fatte sul serio, erano imposti dall’alto e approvati sempre “per acclamazione”. Il risultato di siffatta scelta dall’alto è stato questo: che a far parte degli organi disciplinari dei sindacati forensi, specialmente di quelli alla periferia, sono stati assai spesso chiamati anziché i professionisti più stimati per la loro proprietà e per la loro dottrina, i piccoli avventurieri della professione che facevano della intimidaziona politica a uno specchietto per attirare i clienti.

Proprio in questa mancanza e in questa conseguente degenerazione degli organi disciplinari, incapaci di colpire con energia il malcostume ovunque affiorasse, si deve forse ricercare la principale causa di un curioso fenomeno, dilagato in questi venti anni, che si potrebbe chiamare “il nepotismo professionale”. Lo storico che tra qualche decennio volesse prendersi il gusto di scorrere i ruoli delle cause discusse dinanzi alla Corte di Cassazione, dai quali appaiono anche i nomi dei difensori, si accorgerebbe con sorpresa che mentre il nome di certi difensori vi ricorreva con ritmo costante, che indicava la estimazione da essi raggiunta e meritatamente mantenuta nei decenni, ogni tanto scappavan fuori all’improvviso come meteore per star sull’orizzonte un anno due e poi subito spegnersi, nomi di avvocati fino a ieri ignoti, intorno ai quali sembrava che da un giorno all’altro i clienti avessero fatto ressa con implacabile frenesia per affidare ad essi, proprio ad essi e non ad altri ogni processo di qualche importanza. Lo storico non riuscirebbe a spiegare da sé queste repentine illuminazioni; ma per aiutarlo fin d’ora nel suo lavoro di interpretazione dello strano fenomeno è dato a noi contemporanei svelargli la ragione di questo arcano. Si trattava, semplicemente, di sacri affetti familiari: sì, avvocati che fino a ieri erano poveri diavoli in cerca del primo cliente, salivano di balzo in subitanea fama da quando capitava che loro stretto congiunto si svegliasse una mattina Ministro della Giustizia o di qualche altra cosa. Fratelli, cognati, cugini, figli nipoti del gerarca: tutti diventavano miracolosamente, da oggi a domani, giureconsulti per ragioni di famiglia, ricercati dagli affermati i clienti che, pur di averli, non guardavano a spese. Da loro non si esigeva molto: bastava che mettessero una firma in una comparsa redatta da altri, o che venissero gravemente in udienza a fare ai giudici il saluto romano, senza parlare (perché se parlavano c’era il pericolo che giudici si mettessero a ridere). E si è verificato il caso che ad alcune di questi avvocati, distinto dal bel casato autorevole, sia stata affidata, anche per far cosa grata al gerarca congiunto, la consulenza fissa di qualche grande Istituzione, accompagnata però dal discreto avvertimento che si godesse in pace la lauta prebenda, ma, in quanto ai consulti, si astenesse quanto più poteva dal darne: contratto professionale di nuovo tipo in cui il fortunato professionista si assumeva, in cambio del compenso cospicuo, un obbligo di non fare….

Lo scherzo oggi sembra facile; ma quale umiliazione per avvocati all’antica abituati a credere che il miglior modo per vincere le cause sia quello di aver ragione e di saperla esporre con dottrina e con semplicità, l’accorgersi che il cliente, allucinato da questo maledetto machiavellismo che è la peste del nostro carattere deteriore, non si sentisse abbastanza furbo se non associava alla sua difesa uno di questi analfabeti della professione, la cui presenza, secondo lui, doveva bastare ad atterrire e ad asservire il collegio giudicante! Anche questo sconcio nepotismo professionale ormai ha finito il suo ciclo: comincia, più austera per questo sentimento di angoscia che oggi ci tortura, l’opera di purificazione che vuol dire prima di tutto ritorno alla libertà: libertà di elezione, libertà di critica, libertà di censurare e di allontanare gli indegni, i simoniaci, i delatori, gli avventurieri; ritorno a quelle tradizioni secolari, secondo le quali l’Ordine degli avvocati è stato e sempre tornerà ad essere padrone del proprio albo e solo custode del proprio costume.

L’opera di ricostruzione si è iniziata con la nomina di commissari provvisori, che dovranno per qualche mese tenere il posto dei disciolti organi sindacali e affrettare il giorno in cui potranno restituire all’ordine le chiavi di casa sua. Può parere una contraddizione in termini che il ritorno della libertà si inauguri con altre nomine dall’alto; ma questo è un espediente transitorio indispensabile per poter prima di tutto ricostruire gli albi, cioè il corpo elettorale che non potrebbe con libertà procedere alla scelta dei suoi rappresentanti se prima non fossero state cancellate tutte le esclusioni basate su ragioni politiche, e tutte le altre distinzioni che non si possono ricordare, tanto repugnano alla nostra umanità, senza arrossirne.

Questi tragici giorni che viviamo sono, mentre la prova è così dura, giorni di ritorni e di ritrovamenti: si riscoprono tra le macerie le idee eterne di bontà e di dignità che per vent’anni sono state irrise, si ritrovano per la strada, incanutiti e segnati nel volto, ma intatti nella coscienza, i vecchi amici appena tornati dalla prigionia o dal confino: e insieme con questi reduci che si possono riabbracciare con le lacrime agli occhi, tornano in mente oggi, con più pungente dolore, le immagini degli altri che per non piegare hanno dato la vita in questo ventennio abbattuti dalla violenza o consumati dall’attesa.

Chi dice che gli italiani non hanno saputo far nulla in questi vent’anni per essere degni della libertà? Basta questo martirologio di Caduti, di reclusi e di confinati politici, per costituire la nuova nobiltà civile del popolo italiano: insieme coi Caduti e reduci della guerra, essi hanno attestato nel nostro popolo questa volontà di dedizione al dovere, che è sicura garanzia di rinascita morale. In questa folla, accanto agli studenti e agli operai, gli avvocati sono stati in prima fila nel sacrificio; essi sono il vanto e l’onore del nostro Ordine perché hanno attestato, con questa loro sempre coerenza tra la parola e l’azione, che l’esercizio dell’avvocatura è scuola di libertà e di dignità, dove l’amore della giustizia vale, più che come stimolo di eloquenza, come regola di vita.

PIERO CALAMANDREI

 

 

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