Si sono svolti ieri i funerali del Prof. Gino Colazzo. Era andato in pensione da poco, dopo aver insegnato, per quasi quarant’anni, informatica nell’Università di Trento (a lungo nella Facoltà di Economia e, da ultimo, nel Dipartimento di Ingegneria Industriale).

Sarebbe estremamente riduttivo, però, parlare di lui solo come professore di informatica.

Proverò a spiegare perché raccontando un episodio.

A fine novembre del 2010 Vittorino Andreoli (il noto psichiatra veronese) pubblicò sul Corriere della Sera un editoriale dal titolo “La perdita dei sensi della digital generation. Cresce la vista, ma senza il tatto scompare la vita vera”. Da queste poche parole è facile intuire i contenuti del pezzo. Spedii copia dell’articolo a Gino chiedendogli cosa ne pensasse. Mi rispose in questo modo: “Caro Vanni, sono costretto a partire urgentemente per la Puglia per la morte dell’ultima delle mie zie. In ogni caso conto di darti la mia opinione appena potrò. Un caro saluto, Gino”. Molte altre persone avrebbero lasciato cadere la cosa, ma non il Prof. Colazzo che manteneva sempre gli impegni presi. E, infatti, dopo una decina di giorni mi arrivò da lui una nuova mail. In allegato c’era un lungo scritto nel quale Gino criticava una per una le affermazioni di Andreoli. Ma nella frase iniziale c’era la cartina di tornasole del suo modo di essere e di pensare. Egli infatti scriveva: “Il punto che non condivido è l’approccio cartesiano di Andreoli: Cogito ergo sum. Non credo che noi siamo quello che pensiamo, ma caso mai il contrario: Sum ergo cogito, insomma credo che avesse ragione Spinoza”.

Quella frase diceva molte cose di lui. Gino aveva una vasta e solida cultura umanistica che guidava il suo studio e la sua azione, consapevole del fatto che le tecnologie informatiche potranno essere governate (e restare, quindi, al servizio dell’uomo e non viceversa) solo se saranno maneggiate da persone in grado di comprendere ed orientare la mera tecnicalità. Non è un caso che tra le sue creature, all’Università di Trento, ci sia stato il “Laboratorio di Maieutiche” costituito al fine di studiare e realizzare metodi e strumenti per l’innovazione dei processi di formazione universitaria. Maieutica (come spiega il dizionario Treccani) è il termine con il quale cui viene generalmente designato il metodo dialogico tipico di Socrate, il quale, secondo Platone (dialogo Teeteto), si sarebbe comportato come una levatrice, aiutando gli altri a «partorire» la verità: tale metodo consisteva nell’esercizio del dialogo, ossia in domande e risposte tali da spingere l’interlocutore a ricercare dentro di sé la verità, determinandola in maniera il più possibile autonoma. Gino scelse questo nome per il suo laboratorio e lo declinò al plurale a testimonianza del fatto che (anche grazie all’informatica) diversi possono essere gli approcci ai processi formativi.

Da quanto detto, emerge la figura di un professore immerso nella cultura a 360 gradi; esperto di informatica, ma anche di pedagogia, processi formativi, comunicazione multimediale, didattica a distanza e molto altro ancora. E in ogni caso animato da una profonda curiosità per tutti i saperi e impegnato a coglierne i collegamenti più profondi e significativi.

Questa sua ecletticità lo rendeva una “interfaccia” naturale per chi, pur essendo estraneo al mondo dell’informatica, voleva accostarsi ad essa per far tesoro delle sue enormi potenzialità. E’ quanto è successo a me, professore di diritto. Dopo averlo conosciuto (più o meno a metà degli anni ’90) parlai a Gino di alcune idee che avevo per innovare la didattica giuridica. Il dialogo tra esperti di discipline diverse è di regola un dialogo tra sordi. Ma con lui fu diverso. Non solo capì quello che volevo fare, ma mi aiutò a metterlo meglio a fuoco e mi suggerì gli strumenti tecnici per realizzarlo. Poi mi mise in contatto con alcuni suoi allievi con i quali abbiamo realizzato una biblioteca giuridica virtuale su cdrom, pubblicata dall’editore Zanichelli: un esempio pioneristico di didattica innovativa. Gli sono grato perché se non ci fosse stato lui molto probabilmente le mie idee sarebbero rimaste sulla carta.

Negli ultimi anni, non facili a causa del manifestarsi della malattia, Gino mi ha parlato del progetto di tornare in Puglia, la sua terra di origine. La fine è giunta improvvisa a porre nel nulla questo suo desiderio, lasciando increduli tutti quelli che lo hanno conosciuto e stimato.

Gino ha incarnato un modello che va scomparendo: quello dell’intellettuale che, a dispetto dello specialismo spinto che conduce a sapere tutto sul nulla, sa di dover “essere intero” vera premessa per poter essere professore.

E’ stato un privilegio averlo conosciuto.

 

l’Adige 12 settembre 2019

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