«Cittadinanza digitale per governare Ai e informazione», intervista di Paolo Morando

[Il T quotidiano del 15 ottobre 2025]

Già Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza a Trento, oggi Giovanni Pascuzzi è consigliere di Stato. Ed è autore di un libro, «Il diritto dell’era digitale», giunto alla sesta edizione per Il Mulino: l’ultima ne è di fatto una riscrittura totale, tante sono state le continue innovazioni tecnologiche (e le loro ricadute).

Professor Pascuzzi, anche senza averla mai utilizzata sappiamo ormai un po’ tutti che cos’è l’Intelligenza Artificiale.

«Quando parliamo di IA intendiamo spesso cose diverse. Partiamo da una definizione del digitale: la possibilità di rappresentare testi, suoni e immagini in forma di bit; poi l’elaborazione, ad esempio il vecchio software di word; poi c’è la comunicazione, quindi la possibilità di trasferire questi dati da un capo all’altro del mondo in pochi secondi. L’evoluzione più recente è la proliferazione di dati digitali. E abbiamo degli algoritmi intelligenti, capaci di elaborare da soli questi dati: qui si colloca l’IA, in cui sono sempre più le macchine a operare. Mentre per la comunicazione abbiamo un cyberspazio con nuove forme di business, in cui operano i grandi player».

Da un punto di vista del diritto, quali nuovi problemi sono sorti? E come sono stati eventualmente
risolti?

«La tecnologia crea sì nuovi problemi, però aiuta anche a risolverli. Un tempo la documentazione avveniva con la carta e noi, per sottoscriverla, firmavamo con la penna. Carta e penna sono ora stati sostituiti da documento elettronico e firma digitale. E c’è una disciplina giuridica. La frontiera oggi è quella dell’IA, ma anche qui c’è una normazione. A livello europeo c’è un regolamento del 2024, mentre è di pochi giorni fa la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge italiana. Il regolamento europeo distingue tra livelli di rischio in relazione alla compromissione dei diritti fondamentali delle persone. E pone dei divieti».

Divieti a che cosa?

«A sistemi rischiosi, ad esempio quelli relativi alla valutazione automatica della persone, giudicandole per via totalmente automatizzata. Qui scatta l’allerta massima: divieto o regolamentazione stringente».

Il che significa che siamo già arrivati all’esistenza di sistemi rischiosi.

«Sì. Prenda i sistemi di riconoscimento automatico dei volti. Già con la collocazione di telecamere con finalità di controllo, magari del traffico, si pone il problema di vedere cose e persone che magari non dovrebbero essere lì. A questi sistemi magari non interessa riconoscere le singole persone, ma possono scattare elaborazioni di controllo a partire da etnia, età e zona». 

Come nel film «Minority Report».

«Questo è il rischio. Oppure per le posizioni lavorative: i sistemi elaborano e rischiamo di restare vittima del Grande Fratello».

Nel senso di Orwell e non del programma televisivo. Mentre nel campo dell’informazione, tipicamente sui social, spesso non sappiamo più riconoscere un’immagine creata da una chat generativa invece che dall’uomo. Idem per le notizie. Le fake news iniziano ad avere un rilievo militare.

«Senz’altro. Diciamo che l’IA significa tante cose: innanzitutto reti neurali in grado di prendere decisioni, la robotica, la visione automatica… Poi c’è l’IA generativa, di cui tutti parliamo, come Chat GPT o Gemini, che generano testi e immagini, come quella celebre di papa Francesco con il piumino bianco. I fotomontaggi esistevano anche prima, sia chiaro, ma qui siamo molto oltre».

E il diritto come ha risposto?

«In alcuni Stati si è imposta la dicitura “immagine generata con l’IA”. Ma qui si apre il problema della formazione ad essere cittadini digitali. Non possiamo non far parte di questa società. C’è chi dice: a scuola togliamo i telefonini, che tolgono attenzione e concentrazione. Io lascerei comunque questa decisione a genitori e insegnanti, senza calarla dall’alto. Ma dire che a scuola non si debbano usare questi strumenti, come se fossero libri messi all’indice, comporta il non preparare i ragazzi ad affrontare questa realtà. Il che mi sembra molto peggio. È come arrivare a diciotto anni senza saper né leggere né scrivere. E non possiamo permettercelo. I minori sono i più esposti: ci sono state cause in Francia contro Tik Tok, promosse da genitori i cui figli si sono suicidati dopo aver visto lì dei video. Siamo a questo livello. E comunque il fatto che un minore non abbia responsabilità di tipo giuridico non significa che non abbia delle responsabilità. Il cyberbullismo avviene tra ragazzi. Che hanno l’obbligo di rispettare l’altro. E qualcuno glielo deve insegnare. Anche a comportarsi bene sulla rete».

Come impatta tutto questo sull’informazione quotidiana?

«Qui si apre un altro capitolo. C’è il problema innanzitutto di definire un prodotto editoriale. Possiamo ancora distinguere tra diversi canali informativi, tv, radio, giornali? Blogger e podcast che cosa sono? L’editore oggi chi è? E come sono disciplinati i rapporti di lavoro?».

Il timore è che l’intelligenza artificiale sostituisca posti di lavoro. Come è avvenuto con le catene di
montaggio nelle fabbriche.

«Esattamente. Tutti i browser oggi si aprono con aggregatori di notizie, secondo i nostri gusti: e lì si apre il problema della remunerazione dei giornali da cui questi aggregatori traggono le notizie. C’è un regolamento comunitario che riconosce agli editori questo diritto, ma anche una causa in corso, perché le piattaforme non vogliono pagare. Il problema comunque esiste, perché così i giornali vengono letti da chi non li ha pagati, creando così precariato. Il risultato comunque è che nel settore giornalistico la tecnologia sta mietendo vittime».

E poi c’è il problema dell’indipendenza da influenze straniere.

«Certo. Noi oggi capiamo che ci sono fonti d’informazione che rispondono a interessi di Paesi stranieri, parlo dei social: come facciamo a difenderci? Se oggi dovessimo fare una nuova legge sull’editoria…».

L’ultima risale addirittura al 1981.

«Sì, è sorpassata. Oggi esiste un servizio come Google News che, nel menu, mette a disposizione strumenti su come guadagnare di più, come aumentare il proprio bacino di utenti, eccetera».

Strumenti con logica remunerativa che soppiantano l’intelligenza critica del giornalista.

«Non solo. Uno degli strumenti, “Trends”, ti dice quali sono gli argomenti che vanno per la maggiore. E
quindi i giornalisti sono anche esentati dal cercare le notizie. Si forma una grande bolla, che alla fine non
parla d’altro che di gossip».

O di Garlasco.

«E anche lì non se ne può più. L’informazione è sempre stata in rapporto con le tecnologie per rappresentare la parola, foglio di carta e piombo, e per la diffusione, con la stampa. Oggi abbiamo un’informazione che si misura con una tecnologia totalmente nuova, che può duplicare gli originali al punto da non permetterne più la riconoscibilità. E se un tempo i giornali vendevano notizie ai lettori, oggi vendono i lettori alla pubblicità. Gli editoriali del Corriere della Sera, oggi, sono di lunghezza risibile rispetto a quelli del New York Times. E come fai a spiegare la complessità di Gaza in poche righe?».

Sta dicendo che in Italia l’abitudine alla lettera è stata massacrata dagli stessi giornali?

«C’è da chiedersi chi ha causato cosa. Io credo che la tecnologia sia al tempo stesso fattore e prodotto di questi mutamenti, anche prima del digitale: mutamenti culturali e sociali indotti dall’uso della tecnologia, che però a sua volta segue qualcosa che è stato deciso a monte. E ancora non sappiamo esattamente da che parte stiamo andando».

Non sembra ottimista sul futuro dell’informazione.

«Governare questo cambiamento è l’unica strada, non possiamo fare altro se vogliamo continuare a difendere i valori che oggi vengono messi a dura prova, anche nei Paesi che dovrebbero esserne i primi rappresentanti. La cittadinanza richiede impegno, non solo attraverso il voto o il controllo di chi ci governa. L’impressione è che le persone non si vogliano più impegnare. E la cittadinanza digitale richiede un impegno ancora maggiore. Nell’ultima frase del libro, scrivo che lo scopo è spiegare come funzionano queste tecnologie per non farci governare dalle stesse. Alla fine, quando queste macchine diventeranno realmente intelligenti, perché per ora producono solo chiacchiere, il rischio è che ubbidiranno solo ai loro bisogni e ignoreranno gli umani. Che non potranno più neppure staccare la spina».

Il T quotidiano, 15 ottobre 2025

 

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